martedì 5 dicembre 2006

L’errore di “Time”, fra “YouTube” e bloggers scatenati



di Andrea Piersanti

La televisione “collaborativa” del futuro impazza e “Time”, come Tafazzi che si prende a bottigliate sull’inguine, cade nella trappola. Titola sulla nuova “democrazia digitale” quando invece si dovrebbe parlare ormai di “demagogia digitale”.

“YouTube”, la tv fai da te, con migliaia di video prodotti dal pubblico, comprata per un miliardo e mezzo di dollari da Google; il “Venice project” degli inventori di “Skype” e “KaZaa” per una nuova tv “peer to peer” (condivisione di video fra gli utenti del web, come era stato fatto per la musica); l’esplosione dei blog (milioni di informazioni e commenti autoprodotti e visti da una coriandolizzazione di minicomunità di utenti); “Wikipedia”, l’enciclopedia online con centinaia di migliaia di lemmi scritti da chiunque nel mondo e ormai piena zeppa di strafalcioni e di definizioni partigiane: sono questi i fenomeni che hanno indotto il settimanale “Time” a commettere un autolesionistico errore di valutazione.

Il consueto “personaggio dell’anno”, infatti, questa volta è stato rappresentato da una copertina a specchio. Il titolo diceva: “Person of the Year: You”. “Nel 2006 – ha scritto Lev Grossman su “Time” – il World Wide Web è diventato uno strumento per condividere i piccoli contribuiti di milioni di persone e farli diventare notizie”. Una trappola pericolosa. Per anni il tema della deontologia dell’informazione (una specie di parolaccia che ci ricorda che la comunicazione è una cosa eticamente delicata) ha tenuto deste le coscienze. Il filosofo Karl Popper aveva proposto addirittura una patente per chi fa la tv. Adesso invece il dibattito è scomparso. È la vittoria definitiva del “relativismo”.

In questa esplosione delle informazioni “peer to peer”, letteralmente “da pari a pari”, ogni opinione è valida di per sé stessa. Un fenomeno culturale e sociologico che è nato prima del web e che ormai è già rimbalzato fuori dalla rete ricadendo nella nostra vita di tutti i giorni.

All’inizio furono i “talk show”, programmi televisivi dove le chiacchiere dovevano dare spettacolo. Fu il primo approdo del relativismo di massa. Ognuno aveva ragione e ognuno poteva strillare le proprie sciocchezze. Bastava essere dotati di una qualche forma di appeal. Un insulto, una parrucca vistosa: ogni trucco andava bene.

Poi la tecnologia ha aiutato la crescita del fenomeno. Le dimensioni sono così macroscopiche che, mentre i masochistici giornalisti di “Time” si inchinano alla fine delle loro carriere, molti studiosi cominciano ad interrogarsi sul “trash digitale”, la spazzatura del web di cui ormai sono pieni i nostri computer. Maldicenze, bugie, millantati crediti, finte indagini, scoop cretini si rincorrono ogni giorno dentro e fuori la rete (vogliamo parlare del video di Deaglio sui presunti brogli elettorali, per esempio?) creando leggende metropolitane al confronto delle quali la notizia degli alligatori albini nelle fogne di New York diventa una storia da premio Pulitzer.

Qualche tempo fa, il ritratto del giornalismo televisivo del passato fatto da George Clooney nel suo film “Good Night, Good Luck” (la vera storia di Edward R. Murrow, l’anchorman della Cbs che sconfisse il sen. McCarthy) si chiudeva con questa citazione. “La televisione – disse Murrow ai suoi colleghi – può insegnare, può illuminare; sì, può anche ispirare. Ma può farlo solo a patto che gli uomini siano determinati a usarla per questi scopi. Altrimenti non è niente di più che cavi elettrici e luci dentro una scatola. Buona notte e buona fortuna”.

Pubblicato su Il Giornale il 29 dicembre 2006

lunedì 4 dicembre 2006

Vita di Santa Teresina di Lisieux


Nacque ad Alençon in Francia nel 1873, da genitori cristiani. Compì i suoi studi presso le benedettine di Lisieux. All’età di 15 anni, dopo numerosi tentativi e suppliche, ottenne il permesso di entrare nel monastero delle Carmelitane di Lisieux. Praticò in modo particolare l'umiltà, la semplicità evangelica e la fiducia in Dio, e queste medesime virtù insegnò soprattutto alle novizie con la parola e con l'esempio. Il 30 settembre. 1897 esalava l'ultimo respiro. Fu canonizzata nel 1925. Giovanni Paolo II l’ha dichiarata Dottore della Chiesa il 19 ottobre 1997. La giovane santa, che aveva mantenuto la promessa di far cadere dal cielo una pioggia di rose, continua a irrorare la Chiesa.

giovedì 9 novembre 2006

Dal Vaticano: il cinema contro la cospirazione del silenzio


di Andrea Piersanti
Dal Vaticano una nuova parola d’ordine: il cinema può essere uno strumento per combattere la cospirazione del silenzio, quella che colpisce i diseredati della terra ma anche quella che nega i valori fondamentali della religione cattolica.
È una cosa che suscita stupore fra coloro che continuano a pensare alla Chiesa come ad un instancabile censore. Ma non si tratta di una novità. Il Papa ha un proprio cinema privato a Palazzo San Carlo, all’interno della Città del Vaticano. Si tratta di una saletta di una cinquantina di posti restaurata un paio di anni fa grazie all’intervento dei manager di Cinecittà guidati dall’allora ministro Giuliano Urbani. Il prossimo 26 novembre in questa sala vescovi e cardinali assisteranno all’anteprima del film “Nativity”, il kolossal sulla nascita di Gesù che in Italia sarà distribuito dalla Eagle Pictures, la stessa del successo di “The Passion” di Gibson.
Mentre le agenzie battevano questa notizia, ieri mattina sempre in Vaticano, veniva presentato il Festival “Tertio Millennio” dell’Ente dello Spettacolo, dedicato quest’anno al tema della “cospirazione del silenzio”. Il Festival “Tertio Millennio” è ormai al decimo anno di vita (venne istituito nel 1997, in vista del Giubileo del Duemila, sulla base di un progetto elaborato dal professore Claudio Siniscalchi) ed è l’unica manifestazione cinematografica del mondo organizzata con la Santa Sede, grazie alla collaborazione del Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal Cardinale Paul Poupard, e del Pontificio Consiglio delle comunicazioni Sociali, presieduto dall’Arcivescovo John P. Foley.
Il festival, nelle prime tre edizioni, fu inaugurato dallo stesso Giovanni Paolo II. Nei tanti convegni organizzati in questi anni spesso si è discusso proprio delle potenzialità del mezzo cinematografico come strumento per il dialogo e per la pace fra i popoli. Alla presentazione del festival c’era anche il Cardinal Poupard, che è stato recentemente al centro dei riflettori mondiali per la mediazione con il mondo islamico dopo le polemiche nate intorno al discorso tenuto a Ratisbona da Benedetto XVI.
“Il dramma della parola negata è parte integrante del cammino dell’uomo e il cinema non poteva rimanerne fuori”, ha affermato con forza Poupard. “Il cinema è uno strumento privilegiato della comunicazione – gli ha fatto eco Foley -, in grado di abbattere le barriere linguistiche e culturali”.
L’uscita nelle sale di “Nativity” intanto è prevista, in contemporanea mondiale, il prossimo 1 dicembre, in tempo per le feste di Natale.
Alla proiezione per addetti ai lavori, svoltasi il 24 ottobre a Roma, qualcuno si era lamentato di alcune “inesattezze teologiche” come le sofferte doglie di Maria al momento del parto. “Si tratta invece di una scelta di linguaggio cinematografico presa proprio contro la cospirazione del silenzio - avevano spiegato alcuni docenti universitari -. La maggior parte di noi sembra non ricordarsi più della dimensione storica del Vangelo. Giuseppe, Maria e lo stesso Gesù sono esistiti veramente nella nostra storia. Ricordarlo, come si fa al cinema con opere come queste, ci aiuta a capire meglio l’unicità del miracolo della Salvezza annunciato dal Nuovo Testamento. Gesù si è fatto uomo e veramente è risorto. Le doglie di Maria, come le cruente frustate sul corpo di Gesù che abbiamo visto nel film di Gibson, saranno anche sbagliate teologicamente ma ci ricordano una verità storica, contro il silenzio ambiguo di chi invece vorrebbe farci credere a magie o a esoterismi new age di varia natura”.
Pubblicato su Il Giornale il 10 novembre 2006

martedì 3 ottobre 2006

Volevo essere Cinecittà


di Andrea Piersanti
Volevo essere Cinecittà. E lo sono stato, per tre anni, come presidente dell’Istituto Luce dal 2003 al 2006. Fui nominato da Giuliano Urbani e arrivai sulla Tuscolana pieno di quell’irruenza che è facile scambiare per arroganza. Volevo essere Cinecittà e il sogno, per un momento, si realizzò.
I tre anni passarono in un lampo, fra entusiasmi quasi infantili e delusioni cocenti. Le cose più belle vennero quasi sempre dalla stessa Cinecittà. Quelle più brutte invece sempre dalla politica.
Proprio in queste ore il ministro Rutelli nomina i nuovi vertici delle società del cinema pubblico (Cinecittà Holding, Luce e le altre). Viene naturale così ripensare a quando, tre anni fa, invece c’eravamo noi. Insieme con Livolsi, Avati, Sovena, Piazzi e tutti gli altri volevamo veramente cambiare le cose.
Quando varcammo i cancelli di Cinecittà fummo accolti invece con la diffidenza scanzonata che è tipica dei romani. Insieme con le battute e qualche risata di scherno, scoprimmo però anche un’azienda innamorata di sé stessa e seriamente consapevole del proprio ruolo. Trovammo dipendenti e dirigenti preparati e appassionati che, ancora oggi, sono la vera e unica ricchezza di quell’azienda.
Volevo essere Cinecittà e, dopo la gioia dei primi tempi e l’entusiasmo per le tante cose che si potevano fare, arrivò anche il momento meno divertente. La politica si affacciò con tutto il suo carico di grezza incompetenza. Avati per primo lasciò la poltrona di Presidente di Cinecittà avendo capito, prima di noi, che le cose sarebbero andate in un modo diverso. Noi però chinammo il capo e continuammo a lavorare. Ma la politica era sempre lì, dietro l’angolo, pronta ad azzannare alle caviglie i nostri sogni e i nostri progetti.
Fu doloroso alla fine dover lasciare tutto. Ce ne andammo alla spicciolata, cacciati dalla stessa politica che ci aveva nominato. Con sentimenti di amarezza e di rimpianto per gli errori fatti ma anche con una gioia intima e segreta per le cose belle che invece, nonostante tutto, eravamo riusciti a realizzare.
Avemmo infatti anche la nostra piccola “buonuscita”. La scovammo nello sguardo clandestino di qualche collaboratore, in alcune telefonate ricevute prima di andare via, negli sms e nelle mille email. Cinecittà ci salutò facendoci intendere che forse non tutto il nostro tempo lì era andato perduto. Adesso è ancora la politica a far sentire la propria voce.
I nuovi vertici del cinema pubblico arriveranno sulla Tuscolana con un’irruenza che sarà scambiata per arroganza. Avranno sogni e progetti e, come noi e come gli altri prima di noi, saranno accolti con quella diffidenza scanzonata e un po’ volgare che è tipica dei romani. In modo particolare di quei romani di Cinecittà che sono sopravvissuti all’invasione di Hollywood, che hanno lavorato con Fellini e che oggi, con un sorriso pieno di antica e svogliata saggezza, sono ancora lì ad accogliere i nuovi arrivati.
Volevo essere Cinecittà e, per un attimo, lo sono stato. Un regalo meraviglioso. Mentre riprendo con fatica la vita normale che si svolge fuori da quelle mura, mi viene in mente l’unico augurio che posso fare alle tante persone con le quali ho lavorato in quei tre anni. Eccolo: auguro agli allegri romanacci di Cinecittà che anche i nuovi presidenti e i nuovi amministratori delegati, nel momento di varcare i cancelli delle Tuscolana, abbiano dentro quella musica del cuore di chi “voleva essere Cinecittà”. E che, magari solo per un attimo, ci è riuscit0.