giovedì 28 aprile 2011

IL GRANDE EQUIVOCO


Comunicatore o testimone di Cristo? Di Giovanni Paolo II non si sono considerati che i “gesti”, obliterando le parole, la dottrina, e mettendo a riposo le generose speranze, dice il Cardinale Mauro Piacenza.


Grande comunicatore o testimone della speranza della Resurrezione? Vittima del sistema dei mass media o protagonista della comunicazione dei valori della vita? Nel fine settimana dedicato a Giovanni Paolo II, è bene tornare ad analizzare una delle caratteristiche del suo Pontificato che più hanno impressionato i media di tutto il mondo: la sua straordinaria capacità di comunicare. Nella vulgata giornalistica, questo carisma derivava direttamente dalle sue passate esperienze teatrali e dall’amore per ogni forma di spettacolo. Al momento della sua morte, quando il Collegio cardinalizio indicò il suo successore, non furono pochi coloro che espressero preoccupazioni per il gap comunicativo che si sarebbe potuto scavare fra un Pontificato e l’altro. A dispetto di questo futile pessimismo, invece la Chiesa continua ad essere vitale ed amata in tutto il mondo. Come e più di prima. Nonostante il diverso carisma comunicativo di Benedetto XVI. E allora? Come si concilia questa realtà con le analisi di coloro che preferirono raccontare l’avventura pastorale di Giovanni Paolo II come se il Papa fosse una rockstar alle prese con paparazzi e telecamere?
“Non c’era trucco nella sua comunicazione. C’era invece la forza dirompente della Buona Novella. Dio ci ha creato per essere felici e santi. Per essere santi e felici. È tutto qui. Ma non è poco. E, soprattutto, non c’è l’ombra di una contraddizione. Santi e felici. Felici e santi”, dice Wanda Poltawaska, una grande amica di Giovanni Paolo II. Per recuperare la giusta prospettiva, è opportuno rileggere anche la severa analisi del Cardinale Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero, pubblicata a suo tempo sull’agenzia Fides diretta da Luca De Mata.
“I grandi media, con gli anni, hanno rimproverato a Giovanni Paolo II, questo Pontefice così cordiale, umanamente simpatico, anticonformista nell’atteggiarsi pubblico, non l’innovatore ma il restauratore. Quasi esistesse, se non doppiezza, una contraddizione fra l’immagine  “moderna” e la dottrina non tanto antica quanto “risaputa”; fra il gesto sorprendente  e le parole, catechistiche. Tra i media è stato ripetuto il luogo comune di un Papa “mai tanto applaudito e così poco obbedito”; non si è persa occasione di far notare come ai “successi” degli eventi pubblici che Giovanni Paolo II ha provocato non sia seguita una risposta profonda nelle masse che attirava. Alla fin fine, nella vulgata corrente, di Giovanni Paolo II non si sono considerati che i “gesti”, obliterando le parole, la dottrina, e mettendo a riposo le generose speranze. Ma sarebbe un equivoco, e assai grave. Sarebbe una sorta di manipolazione. Certo, nel pontificato di Giovanni Paolo II v’è stata un’impressionante, e grandiosa, dimensione pubblica della fede; ma vorrei ricordare che essa nasce non da un senso spiccato per “l’evento mediatico”, ma dalla sofferta esperienza, direi dalle lotte di Karol Wojtyla sacerdote, vescovo, cardinale di Cracovia”. Un altro aspetto da riconsiderare è quello della novità che l’attività pastorale di Wojtyla avrebbe impresso alla macchina della comunicazione della Santa Sede. Secondo uno che di comunicazione se ne intende, il giornalista Bruno Vespa: “probabilmente, anche sotto l’aspetto comunicativo, non ci sarebbe stato Giovanni Paolo II se non ci fosse stato Giovanni Paolo I, il primo Papa ad usare la prima persona singolare, e Paolo VI, e Giovanni XXIII, che invitò i fedeli a portare la sua carezza ai figli, e Pio XII, uscito dal Vaticano per andare a consolare i romani martoriati dai bombardamenti”. Una dimensione storica tanto più attuale oggi, in una fase in cui si tende ad avere memoria breve e a farsi impressionare dall’evento dell’oggi, a scordare ciò che è successo appena ieri e a sottovalutare il domani. Ma quale lezione ha lasciato Giovanni Paolo II agli operatori della comunicazione sociale? “Il  Santo Padre teneva moltissimo alla famiglia come fonte della felicità e della santità dell’uomo – ricorda la Poltawaska -. La persona umana è stata creata per la salvezza e la pienezza del bene. È solo questo il segreto della forza travolgente della sua comunicazione. Lui ama veramente il prossimo. Ogni persona è trattata dal Santo Padre come una persona speciale. Questa sua attitudine verso il prossimo è quella che, alla fine, i mass media non hanno potuto fare a meno di registrare. Giovanni Paolo II non dava importanza ai mass media se non in quanto mezzi che gli permettevano di raggiungere le singole persone, il singolo figlio di Dio. Ma questo è anche ciò che il Santo Padre rimprovera ai giornalisti. Nell’ultima processione del Corpus Domini da lui presieduta a Cracovia prima di diventare Papa, all’ultima stazione accusò i giornalisti di non collaborare al processo di evangelizzazione. Lo scandalismo e il catastrofismo contribuiscono a creare nel pubblico un clima di sfiducia verso il proprio avvenire. Un sentimento negativo che è contrario allo spirito di speranza che invece è tipico della Buona Novella del Nuovo Testamento. “La verità è sempre umile”, diceva. Voleva ricordarci che si deve imparare a parlare con Dio. Fermiamoci, ci diceva, Dio parla in silenzio. Il Santo Padre era una persona di una fede così profonda che è difficile da immaginare. Se oggi viene ancora ricordato come  un grande comunicatore è perché aveva così tanto da comunicare. A tutti”.

mercoledì 27 aprile 2011

LA VERITA' E' SEMPRE UMILE

Wanda Poltawska, la grande amica di Giovanni Paolo II:
“La verità è sempre umile, diceva”
“Rimane la forza religiosa del suo sguardo”.
“Ha sempre avuto l’idea di avere tante persone da amare e così poco tempo per farlo”.



“Ho frequentato il Santo Padre per più di cinquant’anni”.
Wanda Poltawska, 90 anni, ha uno sguardo intenso. È stata una grande amica di Karol Wojtyla e ha lavorato a lungo con lui in Polonia, prima che diventasse Papa.
“Sono una psichiatra e, come medico, ho collaborato con convinzione ai tanti centri di ascolto per giovani coppie della diocesi di Cracovia che lui aveva allestito. L’ho ascoltato ogni giorno, da allora. Lui ha sempre voluto, prima di tutto, salvare la santità dell’amore umano. Ha sempre voluto mostrare il progetto d’amore di Dio per l’uomo. Il Santo Padre ne è sempre stato sicuro in tutti questi anni: Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la santità”.




Come nasce il carisma di Wojtyla?
“Il primo libro del giovane Karol Wojtyla era dedicato al tema dell’amore e della responsabilità”.
Si tratta di “Strade d’amore”, pubblicato in Italia, per la prima volta nel 2002.
“Descrisse in quelle pagine la grandiosità e l’infinita generosità del progetto di Dio. Nel suo secondo libro si occupò invece di chi deve avere e di chi deve dare quell’amore. Sono i figli di Dio. Noi siamo tutti figli di Dio.  È questo il motivo per il quale il Santo Padre era così interessato alla difesa della vita umana. Una volta mi disse che tutti i problemi si possono risolvere pensando alla genealogia divina. Siamo tutti figli di Dio. Il Santo Padre credeva veramente che ognuno di noi sia figlio di Dio. Non una creatura di Dio, come gli animali, ma un vero e proprio figlio di Dio che, quindi, è erede ed è amato come solo un figlio può essere amato. Il Santo Padre voleva che la gente capisse e credesse in questo perché un tale concetto della persona umana implica il dovere di vivere in un modo speciale. Si è figli di Dio e, come dicono i francesi, noblesse oblige”.



Perché tutti rimanevano colpiti dal suo sguardo?
“Quando si era insieme con il Santo Padre si provava una profonda commozione perché ci si sentiva guardati e capiti. Nell’intimo. Lo sguardo del Santo Padre era quello di una persona che era in grado di vedere le tracce genealogiche della nostra ascendenza divina. Era questo che guardava. Era questo che amava in noi. Il mio lavoro di psichiatra ebbe una svolta quando Mons. Wojtyla mi fece riflettere su questa verità. Questo infatti è ciò che veramente può aiutare la gente. Il Santo Padre era convinto che la persona umana sia sempre in fieri e che, quindi, possa svilupparsi per compiere quel progetto di felicità e di santità che Dio ha creato per tutti i suoi figli”.
Giovanni Paolo II si è sempre interessato alla famiglia. In un epoca di confusione sul tema, questa sua determinazione fa ancora più impressione.
Lo sviluppo di un individuo nasce nella propria famiglia. Se i genitori indirizzano male questo sviluppo, l’uomo passa poi il resto della vita nell’infelicità e nel tentativo di raddrizzare ciò che è stato fatto storto. Il  Santo Padre teneva moltissimo alla famiglia come fonte della felicità e della santità dell’uomo. La persona umana è stata creata per la salvezza e la pienezza del bene”.
Di lui hanno detto che è stato un grande comunicatore.
“Non c’era trucco nella sua comunicazione. C’era invece la forza dirompente della Buona Novella. Dio ci ha creato per essere felici e santi. Per essere santi e felici. È tutto qui. Ma non è poco. E, soprattutto, non c’è l’ombra di una contraddizione. Santi e felici. Felici e santi. Era solo questo il segreto della forza travolgente della sua comunicazione. Lui amava veramente il prossimo. Ogni persona è stata trattata dal Santo Padre come una persona speciale. Questa sua attitudine verso il prossimo era quella che, alla fine, i mass media non hanno potuto fare a meno di registrare. Il suo rispetto per il prossimo è sempre stata la molla di tutti gli incontri che ebbe da vescovo e, dopo, da Papa a Roma. Si parla tanto di mezzi di comunicazione di massa ma ci si sofferma poco sul fatto che l’arma di comunicazione più forte della Chiesa contemporanea sia ancora quella di duemila anni fa: l’omelia. Il contatto diretto con il prossimo e la forza della parola. Sono stati questi gli strumenti vincenti della comunicazione di Giovanni Paolo II. E lo saranno sempre di più per la Chiesa del Terzo Millennio”.
Il suo rapporto con i mass media?
“Il Papa non è stato ripreso dai mass media, non ha avuto un atteggiamento passivo nei confronti di telecamere e microfoni. Sapendo benissimo cosa dire, e perché, è stato lui ad usare i mezzi della comunicazione per raggiungere il prossimo in ogni angolo del mondo”.
Una comunicazione fortemente caratterizzata dal fatto religioso.
“La dimensione globale della comunicazione del suo pontificato ha avuto un significato teologico ed era riconducibile alla vocazione missionaria della Chiesa. Il Santo Padre ha sempre rivolto il suo messaggio a tutti, credenti e non, cattolici e non. Siamo tutti figli di Dio, ha sempre detto Giovanni Paolo II. Tutti, anche i non battezzati in Cristo”.
Come agiva Wojtyla in Polonia, sotto il comunismo?
“Era impossibile organizzare incontri di massa. Per questo motivo le occasioni di udienza con il Vescovo erano costruite in luoghi diversi dal vescovato ed erano dedicate di volta in volta a gruppi professionali diversi fra di loro: medici, architetti, giornalisti, ecc. Ognuno di questi incontri era preparato con cura per sfruttare nel migliore dei modi il poco tempo a disposizione. Una o due persone preparavano delle schede che il vescovo leggeva con scrupolo. Al momento dell’incontro quindi scattava sempre la molla della sorpresa: i professionisti erano sempre interpellati nello specifico della loro attività”.
Che tipo di Vescovo era Wojtyla?
“Il Santo Padre, anche quando era vescovo, ha sempre evitato l’errore di un insegnamento calato dall’alto. Al contrario, entrando in contatto con la realtà, ha sempre trovato il modo per una comunicazione diretta con i suoi interlocutori. È il metodo che poi ha usato anche a Roma e nei suoi viaggi. È sempre stato lui a scendere in mezzo alla gente e non ha mai aspettato che fossero gli altri a salire da lui. È il motivo per cui ha fatto tanti viaggi. Era lo stesso anche in Polonia. Ha sempre avuto l’idea di avere tante persone da amare e così poco tempo per farlo. Quando era vescovo, gli capitava spesso di presiedere la celebrazione eucaristica in tre città molto distanti fra di loro. Durante il viaggio, poi, ne approfittava per scrivere e per leggere”.
Come faceva a vedere tante persone? La sua agenda è sempre stata frenetica e convulsa.
“Le persone che vedeva erano sempre molto diverse fra di loro. Dalle suore di Madre Teresa ai diplomatici dei paesi arabi. Lui, prima di ogni incontro, pregava  per la persona che stava per incontrare. Lo faceva sempre. Ogni volta. Quando poi si aprivano le porte e i visitatori entravano al suo cospetto, scattava subito la molla del contatto. È questo uno dei motivi dello straordinario carisma che si respirava anche durante gli incontri di massa, soprattutto con i giovani. Il Santo Padre, anche nelle assolate pianure piene di centinaia di migliaia di persone, cercava sempre il contatto con la singola persona. Anche quando aveva di fronte un milione di persone, parlava sempre in modo che ogni singolo sentisse quelle parole come dirette a lui personalmente, a lui come persone umana e figlio di Dio. È un sentimento di amore verso il fratello che la gente riusciva a percepire e che provocava commozione. Stava in questo atteggiamento la genialità nell’uso dei mass media.  Giovanni Paolo II non dava importanza ai mass media se non in quanto mezzi che gli permettevano di raggiungere le singole persone, il singolo figlio di Dio”.
Nell’ultima processione del Corpus Domini da lui presieduta a Cracovia prima di diventare Papa, all’ultima stazione accusò i giornalisti di non collaborare al processo di evangelizzazione.
“Lo scandalismo e il catastrofismo contribuiscono a creare nel pubblico un clima di sfiducia verso il proprio avvenire. Un sentimento negativo che è contrario allo spirito di speranza che invece è tipico della Buona Novella del Nuovo Testamento”.
Ricorda la prima volta che lo incontrò dopo la sua elezione al Soglio Pontificio?
“Quando andai a Roma la prima volta ebbi una fortissima impressione. Dissi a mio marito che sembrava una farfalla che aveva finalmente compiuto il proprio processo di sviluppo e che poteva finalmente volare. Da allora non ha mai smesso di volare. Per annunciare la nostra felicità e per indicarci la strada per la santità. Ma nonostante la bellezza del suo volo, non abbiamo mai smesso di sentirlo vicino in tutti questi anni. “La verità è sempre umile”, diceva. Voleva ricordarci che si deve imparare a parlare con Dio. Fermiamoci, ci diceva, Dio parla in silenzio. Il Santo Padre era una persona di una fede così profonda che è difficile da immaginare. Se ancora oggi viene considerato un grande comunicatore è perché aveva così tanto da comunicare. A tutti”.

sabato 23 aprile 2011

Nanni Moretti? Un prete mancato.

Curiosa e affascinante è la sintonia che un ateo miscredente di sinistra come il regista Nanni Moretti ha nei confronti del mondo dei sacerdoti. Nel suo nuovo film, “Habemus Papam”, già in testa agli incassi del botteghino italiano e pronto per andare a fare una passerella d’onore al prossimo festival di Cannes di maggio (i francesi lo adorano), Moretti parla di un Pontefice schiacciato dal peso della responsabilità. Interpretato da uno splendido Michel Piccoli (recita in italiano con esitazioni e accenti da francese), il nuovo Papa succede a Giovanni Paolo II (il film si apre con il repertorio del funerale di Wojtyla montato come fosse materiale nuovo e mai visto, bellissimo) ma, al momento di affacciarsi per la prima volta al Balcone delle benedizioni, caccia un urlo disumano e corre a rifugiarsi nella Cappella Sistina.
“Come Pietro – diceva Giovanni Paolo II – il Papa è chiamato ad essere una pietra, a confermare i suoi fratelli nella fede”.  Non fa così invece il personaggio del film di Moretti. Più che una pietra, sembra fragile e ondivago come la società “liquida” di cui parla il sociologo Bauman, il teorico dell’età dell’incertezza. Per convincere il riluttante nuovo Papa ad accettare l’incarico, i Cardinali decidono di chiamare uno psicoanalista interpretato da Nanni Moretti. Rimarranno tutti chiusi in Vaticano in un prolungamento innaturale del Conclave. Il terapeuta, per ingannare il tempo, organizzerà anche un surreale torneo di volley fra i porporati. Non sanno però che il Papa intanto è scappato e, in incognito, gira per Roma. Si tratta di un curioso espediente narrativo. Il dottore ateo e miscredente entra in Vaticano con religiosi e cardinali e, nella sua stanza, c’è solo un libro, la Bibbia. Il Papa in abiti borghesi invece, come Zavattini, prende il tram alla ricerca dell’umanità perduta. Ciò che colpisce coloro che frequentano la Curia romana è la capacità tutta morettiana di penetrare nella psicologia di sacerdoti e vescovi, nelle loro incertezze e nella loro umanità spicciola. Moretti trascura però completamente la dimensione religiosa.
“Sono Papa da due anni – aveva detto Benedetto XVI nel 1980 durante un incontro con i giovani in Francia -. Da più di venti sono Vescovo, eppure la cosa più importante per me rimane il fatto di essere un sacerdote. Potere ogni giorno celebrare l’Eucarestia, poter rinnovare il proprio sacrificio in Cristo, riportando, attraverso Lui, ogni cosa al Padre, il mondo, l’umanità e me stesso”. Ben diverso è invece l’atteggiamento del Papa e dei Cardinali raccontati da Moretti. Mai, neanche una volta, si riferiscono a Dio. Solo verso la fine del film, un piccolo prete in una chiesa romana semideserta parla della Misericordia del Signore nei confronti dei tanti difetti dell’umanità bisognosa di perdono. Un po’ poco anche per un miscredente come Moretti. “Io penso – aveva detto Benedetto XVI la scorsa estate ad alcuni sacerdoti romani - che, soprattutto, sia importante che i fedeli possano vedere che questo sacerdote non fa solo un ‘job’, ore di lavoro, e poi è libero e vive solo per se stesso, ma che è un uomo appassionato di Cristo, che porta in sé il fuoco dell’amore di Cristo”. Ovviamente non c’è traccia di questo fuoco nel film di Moretti. Ma la sua insistita volontà di mettere in secondo piano il trascendente è in parte compensata dalla sua straordinaria capacità di guardare dentro il disagio dei preti dell’età moderna. Lo aveva fatto anche con “La messa è finita”, il suo film del 1985 dedicato al tormento del giovane sacerdote Guido, costretto a vivere il suo ministero fra i coetani confusi e sbandati, cresciuti sulle ceneri dei movimenti giovanili e degli anni di piombo. “La messa è finita” venne proiettato allora anche nel corso delle “Settimane sociali” organizzate dalla Cei. Gli oltre cinquecento sacerdoti, che in quei giorni videro il film di Moretti, reagirono con grande empatia. Risero, si commossero e, alla fine, applaudirono. Si tratta di una sintonia veramente stravagante tanto da far pensare che forse lo stesso Moretti sia una specie di prete mancato.
Dove nasce questa attrazione di Moretti verso il ministero sacerdotale? “Tutto questo accade perché il nostro celibato sfida il mondo, mettendo in profonda crisi il suo secolarismo ed il suo agnosticismo e gridando, nei secoli, che Dio c’è ed è presente!”, suggerisce uno scritto del cardinale Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero. È da credere comunque che stia in questa ambivalenza la ragione della mitezza del giudizio dei cattolici sul film. Mentre da una parte non si può non registrare l’assenza del Mistero, dall’altra in molti sono stati tratti in inganno dalla capacità di Moretti di farsi “prete” anche se ateo. Da Messori a Ravasi, dal neoconvertito Giuliano Ferrara (“Non l’ho ancora visto ma già mi piace”, ha scritto l’elefantino) agli esperti della Commissione Valutazione Film della Cei, nessuno ha sparato a palle incatenate sul film tranne che per una lettera pubblicata ieri su "Avvenire" e su “Piùvoce”. “Sulla crisi di identità che attanaglia il neo eletto pontefice, il regista getta uno sguardo di comprensione ampia e generosa – scrivono gli esperti della Cei nella scheda preparata per le sale parrocchiali - , la radiografia di una `repulsione` improvvisa, che non trova origine né lascia intravedere soluzioni. Una parabola sulla rinuncia che il mestiere furbo e esperto di Moretti lega anche e comunque alla cassa di risonanza massmediatica che la scelta del mondo vaticano comporta. Dal distacco tra lo scenario scelto e l`approccio un po` elementare nel descriverlo, deriva che il film, dal punto di vista pastorale, é da valutare come complesso e segnato da superficialità”. Invece il film meriterebbe forse una maggiore attenzione. Alla fine il Papa di Moretti dice: “Non sono la guida che state cercando”. A chi si riferisce? 

Pubblicato su Piuvoce.net

venerdì 22 aprile 2011

SISTEMA CINEMA PIEMONTE





Rubini, Soldini, Volo, Genovese, Vanzina, Ponti, Calopresti, Emmer, Manuli, Avati, Bruni Tedeschi, Martinelli, Ferrara, Lizzani, Gaglianone, Bonivento, Zaccaro,  Montaldo, Sorrentino, Base, Torrini, Infascelli, Patierno, Ferrario, Capotondi, Grimaldi, Capitani, Marino, Argento, Capuano, Molaioli, Faenza, Venier, Bonivento, Carpi, Lucini, De Seta, Archibugi, Giordana, Tognazzi, Amurri, Lucchetti, Segre, Martone, Chiambretti, Samperi, Chiesa, Pozzessere, Corsicato, Comencini, Haber, Chiambretti e ovviamente Mazzacurati (da cui il titolo di questa rubrica) sono solo alcuni dei tanti registi che hanno girato in Piemonte. Ci sarà pure un motivo per il quale il Piemonte è oggi la regione cinematografica più attiva d’Italia, dopo il Lazio. Insieme con teatri di posa da far invidia a Cinecittà, ad una film commission iperattiva e ad un centro di formazione d’eccellenza, quello del CSC di Alberoni, il Piemonte ha varato anche il primo fondo di investimento cinematografico nazionale dedicato in gran parte ad agevolare tutte le pratiche relative a tax credit e tax shelter (per l’incontro fra imprese e cinema). Il fondo è stato costituito proprio grazie al forte sostegno della finanziaria regionale, Finpiemonte, e su imput specifico della giunta di Roberto Cota. Si tratta del F.I.P. (Film Investimenti Piemonte) guidato da Paolo Tenna. A tenere a battesimo le prime coproduzioni del F.I.P. (come riferisce Stefano Radice su queste pagine) nel convegno su “New Business? Show Business!” tenutosi prima di Pasqua a Torino, c’era una parte non marginale del cinema italiano. Da Luciano Sovena, Amministratore Delegato di Cinecittà Luce, a Domenico Procacci con la sua Fandango. Da Mario Gianani, il rappresentante più brillante della nuova generazione di produttori cinematografici italiani, a Lionello Cerri. Da Nicola Borrelli, direttore generale del Cinema del Mibac, all’avvocato Bruno della Ragione. C’erano anche i produttori esecutivi più famosi di Roma e i direttori finanziari delle principali società di produzione cinematografica d’Italia. Se si sommano con i registi che hanno lavorato e lavoreranno a Torino, si può arrivare a dire che al momento c’è quasi più cinema italiano in Piemonte che in qualsiasi altra regione. Come si spiega? Per capire cosa sta succedendo nel Piemonte, si deve andare a leggere un altro elenco di persone, quello dei torinesi e dei piemontesi che in questi mesi si sono dati da fare al fianco di Tenna per la costituzione del Fondo di investimento cinematografico. Eccolo. Si comincia con Michele Coppola, assessore alla cultura della Regione guidata da Roberto Cota e candidato sindaco alle prossime amministrative torinesi. Grande amico di Tenna, politico giovane e brillante, non lesina gli sforzi per capire e sostenere il cinema piemontese. C’è Giuseppe Cortese, responsabile della segreteria di Cota e braccio destro operativo della Presidenza della Regione con deleghe mica da ridere come quella per la riforma della sanità piemontese. Cortese, nonostante un’agenda impossibile, ha però voluto trovare il tempo anche per sostenere la razionalizzazione del Sistema Cinema e non sono poche le ore che in questi mesi ha dedicato alle riunioni organizzative con Tenna. C’è poi Massimo Feira, presidente della Finpiemonte. Insieme con il suo direttore generale, l’architetto Maria Cristina Perlo, è fin dal primo istante al fianco di Tenna per elaborare prospettive strategiche e follow up operativi sul piano finanziario. Ci sono infine due cinematografari d.o.c. del Piemonte come Steve Della Casa (Film Commission) e Alberto Barbera (Museo del cinema) i quali, senza soluzione di continuità dalla giunta regionale della Bresso a quella di Cota, si sono allineati con buona volontà e per l’obiettivo comune di incrementare i buoni risultati raggiunti finora. Non è poco. Si tratta di un quadro ben diverso da quello di altre regioni. “Amo il Piemonte e sono impressionato per la profondità e per il carattere inedito del rapporto che lega questa regione al cinema”, disse Roberto Cota, il governatore del Piemonte subito dopo essere stato eletto. Appunto.

giovedì 7 aprile 2011

Laboratorio Roma

La prossima sfida per il sistema festivaliero romano è quella di tramutarsi nel primo laboratorio politico bipartisan del cinema italiano. Il vero problema a Roma, come altrove, è infatti la mancanza di dialogo. Alcuni esempi? Il centrosinistra, invece di cavalcare la candidatura avanzata da Alemanno di un tecnico più di sinistra che di destra come Marco Muller, ha sparato a palle incatenate bloccandone la discesa a Roma. Anche la nomina di Caterina D’Amico alla Casa del Cinema è stata salutata da futili contestazioni. E il centrodestra? La nomina di Aurelio Regina alla guida dell’Auditorium voluta da Gianni Alemanno, per esempio, non ha convinto né Renata Polverini né Fabiana Santini, assessore cultura del Lazio. La morte politica prematura di Umberto Croppi, ex assessore cultura di Roma, inoltre, ha fatto saltare il tavolo del dialogo sul futuro dei festival cinema e fiction che la Regione Lazio aveva aperto in tempi non sospetti con il Comune. Ora i pontieri sono al lavoro e Dino Gasperini (il successore di Croppi) sta cercando di risalire la china con determinazione e buona volontà. Si tratta di un’attività febbrile ma che apparentemente finora ha prodotto poco. I temi sul tappeto, infatti, sono numerosi e sono troppo grandi perché possano essere affrontati senza una reale condivisione politica strategica. Oltre alle difficoltà di dialogo interne ai due schieramenti, c’è da considerare infatti il ruolo che Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e terzo socio del sistema festivaliero romano, ha intenzione di giocare fino in fondo e senza sconti. Zingaretti è virtualmente già in campagna elettorale per il Comune di Roma, una corsa che è accompagnata dal sorriso di Goffredo Bettini, braccio destro di Veltroni e vero inventore e fondatore del Festival del Cinema di Roma. È difficile che voglia subire passivamente le decisioni altrui sul futuro della manifestazione culturale più importante della capitale. C’è poi il tema dei finanziamenti. La Regione Lazio è in ritardo tecnico sul saldo del finanziamento per l’esercizio 2010 del festival e, prima di impegnare nuove risorse per il futuro, vuole capire le regole del gioco e il peso che potrà far valere nelle decisioni strategiche di fondo. Nel frattempo, come segnale di buona volontà, ha messo sul tavolo della trattativa la fine dell’inutile competizione fra festival della fiction e quello del cinema. Faremo un passo indietro sulla fiction, hanno detto la Polverini e la Santini, a fronte dello sviluppo del mercato, di una maggiore razionalizzazione del sistema e, ovviamente, di una maggiore visibilità politica della Regione sul red carpet del cinema. Un invito rimasto senza risposte. Sullo sfondo incombono i due macrotemi. La riduzione della volontà di intervento della Direzione Generale Cinema del Mibac (il neo Ministro Giancarlo Galan, appena nominato, ha detto che in Italia c’è solo la Mostra del cinema di Venezia, una posizione che rischia di produrre effetti negativi proprio sul fiore all’occhiello del festival, il mercato, l’unica iniziativa romana sostenuta dal Ministero) e la crisi strutturale e d’identità del polo cinematografico pubblico della Capitale, Cinecittà Luce. Alcuni segnali positivi vengono però dal Ministro della Gioventù, Giorgia Meloni che, senza esitazioni, è diventato ormai il quarto socio del manifestazione romana. Si tratta di una situazione molto complessa. È difficile immaginare come ne potrà venire a capo una politica che è distratta da divisioni e da incomprensioni. La soluzione però è a portata di mano e, con un salto di qualità, potrebbe far diventare la città di Roma il primo laboratorio politico d’eccellenza per il rilancio del sistema cinematografico. Un tavolo di lavoro congiunto e alla luce del sole dove far sedere, insieme con Galan, Alemanno e Polverini, anche Zingaretti, la Meloni e strateghi di sistema come Bettini. Sarebbe un bel gesto di coraggio. Un gesto responsabile. Che potrebbe essere esportato in altre regioni. Abbiamo parlato di Roma, infatti. Ma cosa succederà nei prossimi mesi a Venezia quando Galan dovrà discutere con il governatore del Veneto Zaia del futuro della Biennale? E a Torino quando la Lega di Cota e il Pd di Fassino, dopo le elezioni comunali, dovranno mettersi al lavoro sui destini della più potente film commission d’Italia e del terzo festival nazionale?


Pubblicato su Boxoffice