domenica 7 febbraio 2010

Born to be wild, il futuro dei cine festival

Nati per essere selvaggi, i festival cinematografici hanno tradito la loro missione e sono diventati noiosi. Il cinema è ancora oggi il principale driver delle scelte delle giovani generazioni in tutto il mondo ma le macchine festivaliere si sono imbolsite. Hanno perso il gusto per l’avventura e per la scoperta. Siamo in attesa di andare nella fredda Berlino a vedere “Metropolis” in versione integrale (una novità nientemeno del 1927, sbadiglio) e abbiamo archiviato le edizioni 2009 di Venezia (perennemente corrucciata per l’assenza del mercato), Roma (con le botte di orgoglio politicante di Bettini che dice Il festival è ancora mio nonostante Alemanno e il centrodestra, tiè) e Torino (molto strillato nella versione autorale di Amelio dopo Moretti ma decisamente poco selvaggio). Ci scappa così il tempo per immaginare il festival che vorremmo. Nel sogno, come spesso accade, le location, Venezia Roma e Torino, si confondono e si mischiano con le fattezze impettite dei vari Muller, De Tassis, Amelio, ecc. Ci siamo divertiti a sognare una cerimonia dove il direttore dice soltanto Benvenuti ed ecco aperta la mostra. E basta. Un posto insomma dove la politica e il protagonismo dei vertici lascino lo spazio all’unico oggetto sociale dei festival: lo stupore del film che non ti aspetti. Per il gala, al posto degli speech, aiuterebbe un po’ di musica. Sarebbero perfetti, per esempio, Rodrigo y Gabriela, due simpatici messicani, mostri di bravura, che hanno trasferito gli standard musicali dell’heavy metal nel mondo della chitarra acustica. “Crazy version, I hope you like it”, ha detto ridendo Gabriela prima di un concerto a Manchester. I loro pezzi (con due chitarre e basta) sono un fuoco di artificio di ritmo e di sorpresa ad ogni nota. Nella cerimonia di una qualsiasi sala grande, fra smoking e improbabili abiti lunghi, ci starebbe bene una cascata scoppiettante di suoni come quella proposta dalla loro musica. Ascoltate per credere alcuni cavalli di battaglia come Juan loco, One o le cover Orion dei Metallica e Stairway To Heaven dei Led Zeppelin. Per svegliarci dalla noia burocratica che ha ormai colpito i festival cinematografici di casa nostra (interminabili, per esempio, tutte le conferenza stampa e ormai insopportabili i sermoncini in politichese di registi e attori di casa nostra in ogni festival) bisognerebbe proprio dare retta a Gavin, il re dei dj del Regno Unito negli anni sessanta. "La cosa che dà un senso a questo mondo folle è il rock and roll. E io sono stato folle a pensare che avrei mai potuto abbandonarlo" dice nel film “I love Radio Rock” di Richard Curtis con Kenneth Branagh, Philip Seymour Hoffman e Emma Thompson, un film che, secondo la Tornabuoni, propone “grazia e divertimento fuori del comune”. Che è appunto ciò che manca ai nostri festival. Le cine-gare nacquero per portare un po’ di pubblico fuori stagione in alcuni grandi alberghi balneari, a Venezia con il Conte Volpi e, subito dopo, a Cannes. È stato un periodo divertente. Smoking bianchi e paparazzate fino a tarda notte. Ma già allora si poteva capire che il futuro dei festival sarebbe stato “selvaggio” o non sarebbe stato affatto. Lo sa bene Robert Redford con la fortunatissima formula del “Sundance”. Lo avevano ben capito a Venezia qualche anno fa due pionieri come la Cattani e Ferzetti quando inventarono la “Finestra sulle immagini”. We were born, born to be wild. Noi eravamo nati per essere selvaggi, cantavano gli Steppenwolf una quarantina di anni fa nella colonna sonora di Easy rider. E aggiungevano: Head out on the highway.
 Lookin' for adventure. 
And whatever comes our way.
 Yeah Darlin' go make it happen. Guida fuori dalla strada maestra. Cerca l’avventura e qualsiasi cosa accada, ti prego, fa che accada. Una formula perfetta per cercare di recuperare l’attenzione del grande pubblico cinematografico delle giovani generazioni, il pubblico cioè che decreta i successi dei blockbuster e che è l’unico, quindi, che interessa ancora a chi fa il cinema veramente.

Pubblicato su Box Office

Il prete di Verdone non prega mai

“I preti tendono a mimetizzarsi, vivono e vestono come laici e si vergognano di mettersi anche una crocetta sul maglione. Così non c'è da stupirsi se finisce che il semplice fedele poi si vergogna pure a farsi il segno della croce in pubblico”. Così ragionava Alberto Sordi, nel 2000, in un’intervista al mensile “30 giorni”. Avrebbe bisogno di rifletterci anche Carlo Verdone. Nel suo nuovo film “Io, Lara e loro” interpreta un prete missionario in crisi che torna a casa dopo venti anni passati in Africa. A Roma trova però una situazione molto caotica e deciderà presto di tornare in missione ad affrontare siccità e banditi di strada insieme con le mille difficoltà della povertà del terzo mondo pur di evitare i nevrotici problemi quotidiani della sua famiglia. Il prete di Verdone non prega mai, durante tutto il film, e neanche una volta si mostra vestito completamente da prete, tranne che per un fugace clergyman indossato distrattamente un paio di volte. In una di queste occasioni, con il colletto rigido che gli gonfia il collo, domanda con durezza a due brutti ceffi molto malintenzionati: “Che la portate a fare questa croce al collo?”. È la stessa domanda che vorremmo rivolgere a Verdone. Perché un prete? La stessa storia non poteva essere raccontata anche da un personaggio un po’ più laico? Dalla visione del film si esce confusi. Presi da due desideri ugualmente urgenti. Stroncare e lodare. Alla figura del prete descritta da Verdone manca infatti la dimensione più importante, quella religiosa. L’assenza della prospettiva del trascendente, l’unica in grado di giustificare la vocazione sacerdotale, rende il personaggio opaco e ambiguo. D’altra parte il pubblico del film, dopo i titoli di coda, inizia subito a discutere animatamente di preti e di missionari. Una bella novità in un’epoca e in un contesto sociale che sembrano aver completamente dimenticato la generosa attività che i sacerdoti in tutto il mondo svolgono silenziosamente e gratuitamente nella nostra vita. Giancarlo Zizola, qualche giorno fa su “La Repubblica”, si lamentava del fatto che i preti, quando predicano dal pulpito, usano gli argomenti divini per temi molto terreni (il costume, la politica). È una visione vecchia. Nelle parrocchie in Italia e in tutto il mondo, i preti sempre di più sono impegnati a parlare soprattutto di Dio e dei Suoi sacramenti. Secondo le linee del “Progetto culturale” lanciato da Giovanni Paolo II e coordinato ancora oggi dal Cardinale Camillo Ruini, è la realtà sociale e politica nella quale viviamo a spingerli (e a spingerci) a rivolgere gli occhi verso l’alto. "La comunicazione deve favorire la comunione nella Chiesa, altrimenti diventa protagonismo individuale oppure, ed è ancora più grave, introduce divisione. All'evangelizzazione non servono i preti showman", ha detto recentemente Monsignor Mauro Piacenza, Segretario Generale della Congregazione per il Clero, nel suo intervento alla Giornata di Studio su "La comunicazione nella missione del sacerdote" organizzata dalla Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce. Secondo Monsignor Piacenza, "il sacerdote non deve improvvisare quando utilizza i mezzi di comunicazione e neppure deve comunicare se stesso, ma duemila anni di comunione nella fede, un messaggio che può essere trasmesso soltanto attraverso la propria esperienza e vita interiore".

Il film di Verdone esce proprio all’inizio dell’anno sacerdotale indetto dal Papa. “Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio – ha detto recentemente Benedetto XVI (Udienza generale del 24.06.2009) -. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono che esistono "da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione… Dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento". A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno".

Proprio in questi giorni sono stati pubblicati i dati dei missionari uccisi nel 2009. Si tratta di trentasette sacerdoti assassinati, per lo più brutalmente. “La loro testimonianza eroica dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto sia utile una presenza di questo genere in zone deteriorate e devastate dal sopruso – scrive Lucetta Scaraffia in un suo articolo per l’Osservatore Romano -. Senza armi — e spesso con pochissimi mezzi, certo molti di meno di quelli dei poteri violenti che essi combattono — questi cattolici dimostrano con il loro esempio che un altro mondo è possibile, un mondo di solidarietà e verità, di amore gratuito. E già questo basta a renderli un bersaglio mortale”.

Verdone, nel suo film, riesce soltanto a sforare la complessità del tema. “Quando non si tiene conto del “dittico” consacrazione-missione, diventa veramente difficile comprendere l’identità del presbitero e del suo ministero nella Chiesa – ha spiegato Papa Ratzinger durante l’Udienza generale dello scorso 1 luglio -. Chi è infatti il presbitero, se non un uomo convertito e rinnovato dallo Spirito, che vive del rapporto personale con Cristo, facendone costantemente propri i criteri evangelici? Chi è il presbitero se non un uomo di unità e di verità, consapevole dei propri limiti e, nel contempo, della straordinaria grandezza della vocazione ricevuta, quella cioè di concorrere a dilatare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra? Sì! Il sacerdote è un uomo tutto del Signore, poiché è Dio stesso a chiamarlo ed a costituirlo nel suo servizio apostolico. E proprio essendo tutto del Signore, è tutto degli uomini, per gli uomini”.

Alcuni sacerdoti romani, che hanno avuto il privilegio di vedere con molto anticipo una copia del film di Verdone, lo hanno ringraziato e gli hanno detto “ci hai accarezzato”, tanto che Verdone si è giustamente sentito autorizzato a dire che la Cei aveva approvato il suo film. La valutazione pastorale espressa dalla commissione nazionale valutazione film della Cei è molto benevola. “Va diretto al cuore del problema Carlo Verdone in questo suo nuovo racconto che, con un indovinato scarto di sceneggiatura, gioca sul repentino rovesciamento della situazione iniziale – scrivono gli esperti cinematografici dei vescovi italiani -. Calandosi in questo personaggio di sacerdote generoso, disponibile, aperto, forse un po' ingenuo, Verdone si crea le premesse per gettare sull'Italia contemporanea uno sguardo amarognolo, fatto di qualche delusione e insieme di molta voglia di riscatto. La constatazione finale dice che l'Italia é, per motivi opposti all'Africa, scenario di una differente ma non meno necessaria missione di recupero di valori civili condivisi. E in questo scenario il ruolo del sacerdote non è certo secondario. Circondato da un coro di figure piccole e grandi (i "mostri" di oggi), Verdone é bravo a suscitare divertimento di fronte ad argomenti per i quali in fondo c'è ben poco da ridere. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come consigliabile e, nell'insieme, brillante”.

Il prete di Verdone insomma manca l’obiettivo di rappresentare la complessità moderna del ministero sacerdotale; ne coglie però un aspetto altrettanto interessante, come forse è stato intuito dagli esperti della Cei. Verdone, infatti, ci racconta cosa vedono i laici nei preti di oggi e cosa pensano del ministero sacerdotale. È ovvio quindi che manchi la dimensione del trascendente perché (e non certamente per colpa di Verdone) detta dimensione è sparita dalla nostra quotidianità, anche e soprattutto nel rapporto che abbiamo con i sacerdoti, ai quali siamo ormai capaci di chiedere di tutto (come fanno anche i parenti con il personaggio interpretato da Verdone) tranne l’unica cosa per la quale il prete ha una qualche competenza specifica: la preghiera.

Giovanni Paolo II, nel 1979, all’inizio del suo Pontificato, nella sua “Lettera a tutti i sacerdoti della Chiesa”, aveva scritto: “Forse negli ultimi anni, almeno in certi ambienti, si è discusso troppo sul sacerdozio, sull’”identità” del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc. ed al contrario si è pregato troppo poco. Non c’è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per confermare l’identità sacerdotale”. Giovanni Paolo II, dieci anni più tardi, nel 1988 a Torino, aveva sottolineato che “Il sacerdote è colui che trasmette la vita divina agli uomini. Potrà essere anche debole, imperfetto, certamente mai pari alla grande fiducia che Dio gli ha fatto, chiamandolo ad essere suo ministro. Ma la sua forza, la sua ricchezza sta primariamente qui: divinizzare gli uomini, santificarli, nutrirli di Dio”. Il sacerdote, insomma, al contrario di quello interpretato da Verdone, “è un uomo che non si appartiene”, (sempre Giovanni Paolo II, nel 1988, ad alcuni sacerdoti a Nepi). Un’immagine che sembra il contrario del prete disegnato da Verdone, attaccato alle cose di questo mondo tanto da arrivare a spiare la ragazza svestita in camera da letto.

Nella giornata del Giubileo del Duemila dedicata al mondo dello spettacolo, Wojtyla disse: “Carissimi, voi che lavorate con le immagini, i gesti, i suoni; in altre parole, lavorate con l'esteriorità. Proprio per questo, voi dovete essere uomini e donne di forte interiorità, capaci di raccoglimento. In noi abita Dio, più intimo a noi di noi stessi, come rilevava Agostino. Se saprete dialogare con Lui, potrete meglio comunicare con il prossimo. Se avrete viva sensibilità per il bene, il vero e il bello, i prodotti della vostra creatività, anche i più semplici, saranno di buona qualità estetica e morale. La Chiesa vi è vicina e conta su di voi!”. In Piazza San Pietro, ad ascoltarlo c’era anche Alberto Sordi, da molti considerato il vero “padre artistico” di Verdone. “Il mio rapporto con il Padreterno si basa proprio sull'educazione che fin da piccolo i miei genitori mi hanno dato così come mi hanno insegnato a camminare e a parlare – disse allora Sordi al giornalista di “30 giorni” -. Vado a messa, mi confesso, prego ogni giorno, credo nei dogmi e non li discuto. È bello credere, e non si crede facendo tanti ragionamenti: io sono cristiano, la vita mi ha sempre più convinto che il cristianesimo è vero. Che bisogno c'è di ragionarci su?”. Vero. Ma sempre Sordi aggiungeva, profetico: “Anche la Chiesa però può peccare di esibizionismo, di leggerezza, come quando è ossessionata dal problema di catturare il consenso dei giovani”.

Le sicurezze di plastica di George Clooney

Sono nuove sicurezze di plastica e si mettono nel portafoglio. Rappresentano il passpartout per i benefit esclusivi ma effimeri del club dei moderni precari del lusso. È questa la parte più divertente di “Tra le nuvole - Up in the air”, la commedia diretta da Jason Reitman (“Juno”, “Thank you for smoking”), interpretata da George Clooney e che esce nelle sale il 15 gennaio. In una scena di seduzione da terzo millennio, Clooney, sfoderando una dopo l’altra le sue speciali carte di frequent flyer, cerca di fare colpo su una donna incontrata per caso al bar. Lei esclama con un’ammirazione che è già venata di desiderio: “Oh, ma hai anche questa. Non ne ho mai vista una dal vero”. Il sogno di Clooney è la super card di coloro che hanno collezionato 10 milioni di miglia. Ma quando alla fine ci riuscirà, non gli sembrerà più così importante. La regola d’oro del marketing delle carte dei frequent flyer è che il cliente “target” deve essere cercato proprio fra i forzati del cosiddetto “club dello Xanax”. Alla generazione di mezzo che vive nella paura costante della precarietà (un club caratterizzato dalla dipendenza degli ansiolitici tipo lo Xanax, appunto) è più facile vendere la compensazione fasulla dell’accesso alle lussuose lounge degli aeroporti internazionali e alle altre forme di personal ed executive concierge. Si tratta di uno status symbol che sembra curare la ferita del narcisismo eccitato dalla bestialità del mercato del lavoro e che rianima l’ego indebolito.

Nel film di Reitman, Clooney interpreta Ryan Bingham, un tagliatore di teste che, per 300 giorni l'anno, vola da una città all’altra degli Usa. È un vero mercenario del licenziamento e corre in soccorso delle aziende che non hanno il coraggio di comunicare direttamente la “brutta” notizia ai dipendenti che stanno per essere cacciati. Gli aeroporti, le camere di albergo, le lounge e, ovviamente, la prima classe in aereo sono la sua vera casa. Ryan arriva al check in, striscia la sua carta platinata e il computer lo riconosce immediatamente. “Ben tornato, mister Bingham”, dice la hostess con un sorriso. “È la cosa che mi piace di più del mio lavoro”, dice Ryan.

È divertente l’interpretazione che ne hanno dato al Manifesto. Secondo il quotidiano “gattocomunista” si tratta di “una metamorfosi mostruosa del tipo beatnik. Sull'aria, invece che «sulla strada». Se Jack Kerouac fosse stato cattivo «dentro» e non un poeta - scrive Roberto Silvestri -; se avesse indossato cravatte e completi Armani e al posto dei suoi adorati «finestrini-da-treno-come-cinemascope» della Union Pacific avesse preferito volare e collezionare mille-miglia American Airlines, studiando a fondo, più del buddismo mahayana, il regolamento per collezionare punti e vantaggi con Hertz e Hilton hotel, avrebbe avuto il volto e il fascino on the road di George Clooney. Insomma lo yuppick, il «bobos» di oggi, un lupo solitario munito di palmare, 24 ore e carte di credito super Vip”.

Divertente, è vero, ma fa anche riflettere. Il vuoto delle nuvole, questo perenne “Up in the air” dal quale il protagonista non riesce a fuggire, neanche quando ha un momento di debolezza e, finalmente, sta per cedere all’amore, è una rappresentazione realistica del paradosso che tutti noi stiamo vivendo. Il cielo deserto fino all’orizzonte (come solo da un finestrino di un aereo si può vedere) sembra il simbolo del vuoto culturale ed etico di un’intera generazione.

La crisi economica che, come uno tsunami, ha attraversato e sconvolto banche e centri di affari, trasformando in un attimo la vita di centinaia di migliaia di individui in un incubo, ha generato una nuova insicurezza. Succede anche da noi, in Italia. Negli enti pubblici e in alcune grandi aziende private, si è intensificata la girandola delle nomine di presidenti, amministratori delegati, consiglieri e dirigenti. Al centro di questo mesto girotondo c’è il potere che assegna le poltrone secondo l’estro del momento e in barba a competenze e meriti reali. È un sistema perverso che mortifica l’ego dei malcapitati di lusso e che li condanna all’iscrizione a vita al club dello Xanax. Lo diceva qualche tempo fa, fingendo una pallida sicurezza, anche uno dei tanti mega dirigenti Rai in attesa del verdetto del cda su un suo possibile avanzamento di carriera: “Inutile agitarsi. Non dipende da me o da quello che so o posso fare”. C’è quindi nel film di Reitman molto di più di ciò che si vede e che ci fa sorridere. Ad una prima lettura, può sembrare solo una analisi di costume della nuova ondata di disoccupazione che sta colpendo gli Usa. Reitman si vanta di aver fatto interpretare i licenziati del suo film non da attori ma da persone comuni che davvero hanno perduto il lavoro: “Autentici, realistici disoccupati di Detroit e St. Louis. Bravissimi”, dice il regista. “Sfido”, chiosa acidamente Lietta Tornabuoni su “La stampa”.

Ma il film è anche una riflessione filosofica sul vuoto della nostra vita. In un mondo che ha perso di vista i punti di riferimento rimane ben poco a cui aggrapparsi. Le sicurezze di plastica, le fast track negli aeroporti o alle reception degli alberghi, le poltrone di lusso negli aerei, il primo posto garantito nelle prenotazioni delle automobili, diventano così un palliativo di certezza in una vita dove abbiamo smarrito il senso stesso della stabilità.

Reitman, come aveva già fatto anche in “Juno”, alla fine sembra indicare una sola via d’uscita: la riscoperta degli affetti della famiglia e degli amici. Altrimenti cosa rimane? Quando finalmente consegnano a Ryan la carta più desiderata, quella dell’impossibile elite dei dieci milioni di miglia, lui è in volo. Il capitano dell’aereo si siede accanto a lui e gli chiede: “Da dove viene?”. Ryan non risponde subito. “Io sono di qui”, dice alla fine con una nota appena percettibile di sgomento nella voce, mentre sullo schermo scorrono le nuvole, bianche e vacue, del cielo sterminato e privo di vita.

La giusta distanza

La promozione del cinema italiano nel mondo sembra più facile. I film italiani sbancano in mercati considerati inaccessibili. “Ex” di Brizzi, per esempio, in Spagna ha fatto registrare incassi milionari. Non era mai accaduto prima. Paradossalmente però il sistema di promozione del nostro cinema è anche in uno stato di grande confusione. Organizzativa e strategica. Il comparto è fermo ad un bivio, come il famoso asino indeciso fra paglia e acqua. Per sintesi, potremmo dare a queste due strade il nome di due donne: Carla e Lucia. Carla come Carla Cattani, dirigente di Filmitalia di Cinecittà – Luce, da più di vent’anni animatrice instancabile di una fitta rete di relazioni con i principali festival del mondo. “Tra i quali Cannes, Berlino, Buenos Aires, Toronto, Shanghai, Tokyo, Locarno, New York e Londra. Ma sono oltre un centinaio i festival internazionali con cui Filmitalia ha attivato una collaborazione, mediante l’organizzazione delle selezioni nazionali così come della presenza dei film e degli artisti italiani”, dice la Cattani. Lucia come Lucia Milazzotto, da tre anni alla guida di New Cinema Network, un sofisticato laboratorio di “pitch” (dal linguaggio del baseball, “lancio”) di progetti anche italiani. Per tre giorni, all’interno delle strutture del Mercato del Festival del Cinema di Roma, i nuovi progetti vengono sottoposti ad una raffica di appuntamenti. Il migliore viene anche premiato da una giuria di produttori internazionali. “Questo spazio di mercato – dice la Milazzotto - è il luogo ideale dove i registi, selezionati tra i più interessanti talenti del panorama del cinema indipendente, possono presentare il loro progetto e instaurare nuovi rapporti di co-produzione con produttori, distributori e finanziatori europei”. Due modi sostanzialmente diversi di perseguire il medesimo obiettivo. Più “materno” e protettivo il primo. Più sfidante e pragmatico il secondo. I registi italiani sembrano innamorati di entrambi. Legati alla Cattani (sono molti gli autori che le fanno vedere in anteprima i propri film) i registi, soprattutto i più giovani, cominciano a guardare con interesse però anche alle nuove leve del mercato come quelle proposte dalla Milazzotto. Marco Muller, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, ha lanciato un appello a Roberto Cicutto a mezzo stampa. Cicutto è produttore (è suo il “Christine Cristina” di Stefania Sandrelli presentato al festival di Roma), Presidente di Cinecittà-Luce (quindi capo della Cattani) e, infine, Direttore del Mercato Internazionale del Festival di Roma (e quindi capo anche della Milazzotto). In un’intervista al Sole 24 ore, Muller lo sfida a costruire insieme un mercato unico “Roma-Venezia” per rilanciare il prodotto italiano. “Cicutto fa già molte cose – ha confidato sorridendo Muller agli amici -. Si occupi anche della nascita del primo mercato interfestival”. I produttori italiani intanto stanno cercando strade alternative. I Lucisano, ma non solo loro, hanno sposato la nuova strategia di posizionamento aggressivo sui mercati internazionali scelta dalla Rai Trade guidata da Carlo Nardello. La società, che si occupa della valorizzazione del patrimonio Rai, da un paio di anni mette le proprie strutture di vendita internazionale al servizio dei produttori cinematografici italiani. L’exploit di “Ex” in Spagna è figlio di questa politica. Scriveva Luciana Castellina nel 2000, quando era ancora presidente di “Italia Cinema”, la società dalla quale nacque “Filmitalia”: “Oggi è necessario dunque un vero processo di ri-acculturamento, di riconquista dello stato che il cinema italiano aveva presso i potenziali opinion makers”. “La giusta distanza” era il titolo di un bel film di Mazzacurati del 2007. La giusta distanza sarà, da oggi, il titolo di questa rubrica. La giusta distanza è anche quella che il cinema italiano dovrà recuperare sui mercati internazionali. Vicini per essere conosciuti e apprezzati. Pragmatici per ricordarsi che si tratta pur sempre di denaro.


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