mercoledì 26 dicembre 2007

Il ballo dei panini: buon 2008 a tutti!

Je ne regrette rien

Non! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette rien
Ni le bien qu'on m'a fait
Ni le mal tout ça m'est bien égal !
Non ! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette rien...
C'est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé!
Avec mes souvenirs
J'ai allumé le feu
Mes chagrins, mes plaisirs
Je n'ai plus besoin d'eux !

Balayés les amours
Et tous leurs trémolos
Balayés pour toujours
Je repars à zéro ...

Non ! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette nen ...
Ni le bien, qu'on m'a fait
Ni le mal, tout ça m'est bien égal !

Non ! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette rien ...
Car ma vie, car mes joies
Aujourd'hui, ça commence avec toi !
Ad uso dei non francofoni una traduzione improvvisata: No, niente di niente No, non rimpiango nulla Nè il bene che mi hanno fatto nè il male. Mi va tutto bene ugualmente No niente di niente No non rimpiango nulla E' pagato, spazzato via, dimenticatoMe ne frego del passato. Con i miei ricordi ho acceso un fuoco. I miei dispiaceri, i miei piaceri. Non ho bisogno di essi. Ho spazzato via gli amori con tutti i loro tremolii spazzati via per sempre. Riparto da zero. No, niente di niente. No, non rimpiango nulla. Nè il bene che mi hanno fatto nè il male. Mi va tutto bene ugualmente. No, niente di niente No, non rimpiango nulla perchè la mia vita, perchè le mie gioie Oggi cominciano con te.

sabato 22 dicembre 2007

Una luce, una preghiera


Una luce nella notte più magica dell'anno.
Buon Natale.

lunedì 10 dicembre 2007

Troppa fuffa. Blogdibattito sui blog impazza.




Vedo troppa fuffa in giro.Troppe webagency che vendono finti blog.Troppe aziende che ormai sono convinte che un blog risolva tutti i loro problemi di comunicazione e che grazie ad esso potranno dire “Anche io sono sul web 2.0″.Troppo web 2.0, non ne posso più. Mi viene la nausea ogni volta che sento quella definizione. Il nuovo web esiste eccome, ma quel nome è sempre più spesso sulla bocca dei fuffaioli e sempre meno di quelli che lo fanno davvero.Troppi convegni in cui i soliti noti si parlano addosso e si chiedono “ma cos’è un blog…”, tra gli ospiti, il Prof. xxxx dell’Università zzzzz (che ovviamente non ha un blog), il signor Presidente dell’associazione Asso FUFFA in tour convegnistico permanente (che non ha un blog), il web expert della nota azienda yyyyy (che ha un blog ma che da due mesi è sbarcata su Second Life perché è più avaaanti e soprattutto fotografabile dai giornali…)…Troppi corsi sul web due (i più annoiati lo chiamano solo 2, senza puntozero, perché così fa più expert).


sabato 8 dicembre 2007

Se quella dei blogger fosse una bufala?


di Andrea Piersanti

Se il popolo dei blogger non esistesse? Dopo la bufala di Second Life, potrebbe essere una notizia sulla quale riflettere.

Aziende importanti hanno investito milioni di dollari di pubblicità nel mondo virtuale di Second Life prima di scoprire che era abitato solo da poche centinaia di avatar. Lo stesso potrebbe accadere per il mondo della democrazia della rete, quello dei blogger.

Deborah Bergamini, manager della Rai sospesa dal proprio lavoro in seguito alla pubblicazione di alcune sintesi di intercettazioni telefoniche, per comunicare con il mondo e con i giornali la settimana scorsa aveva scelto proprio il popolo dei blog. La sua prima uscita pubblica era stata ospitata da un convegno di www.tocqueville.it , la città dei liberi, un aggregatore di blogger di aerea di centrodestra. Il giorno dopo aveva aperto in rete il suo blog personale, http://www.deborahbergamini.it/. In pochi giorni su questo sito è stato registrato un traffico di contatti da grande evento. Più di settantamila pagine viste e molti commenti pubblicati, forse duecento.

Tanti, forse, ma comunque molto meno dei visitatori che, per curiosità, avevano fatto impennare le statistiche della visibilità. Poco più di duecento commenti a fronte di circa sessantamila visitatori unici. È inevitabile dirsi che forse c'è qualcosa che non va.

Si è molto parlato della rivoluzione democratica della rete. Controinformazione, democrazia diretta, dare voce alla maggioranza silenziosa. Sono queste le parole d'ordine che sono rimbalzate sui giornali a fianco delle cronache di fenomeni come quelli delle performance di Beppe Grillo.

Ma, a vedere da dentro la vicenda del blog della Bergamini, si scopre un mondo inaspettato. Il popolo dei blogger, in realtà, è virtuale come quello di Second Life. Sono ancora pochi, pochissimi, gli italiani che usano questo spazio del web 2.0 per esprimere le proprie opinioni. Gli animatori dei dibattiti sono sempre gli stessi. Trenta, forse cinquanta o anche cento (ma non di più) accaniti grafomani che vagano per la rete commentando di tutto. In gergo vengono definiti "troll". Alcuni ormai sono famosi, hanno una loro classifica di popolarità, misurata sul numero dei commenti ricevuti e sul traffico di pagine viste sui propri blog. Numeri piccoli comunque. Al massimo qualche migliaia di pagine viste al giorno e non più di qualche decina di commenti.

Anche i blogger più protetti, i giornalisti dei grandi mezzi di informazione, "postano" articoli che non riescono mai a suscitare più di qualche decina di commenti. Insomma i numeri sono deludenti e anche la qualità lascia a desiderare. Prevalgono narcisismo, anonimato, volgarità. I nickname impazzano e i blogger ci tengono a difendere la loro privacy. Dal chiuso delle loro stanze o dei loro uffici, spediscono commenti al curaro non firmati, virtuali quindi.

Un vero proprio nuovo conformismo culturale animato da una certa superficialità e da una diffusa irresponsabilità. Altro che democrazia diretta. Siamo tornati alle lettere anonime foderate da un po' di tecnologia. Niente di più.

Dopo aver letto attentamente i commenti ricevuti, anche Deborah Bergamini alla fine si è fermata a riflettere e, per il momento, ha congelato il suo blog. "Mi interessa capire in quale Paese ognuno di noi vivrà nei prossimi anni. Così questo blog potrà acquistare un significato che vada oltre l'emotività del momento", aveva postato il 3 dicembre. “Adesso mi sembra di capire – ha confidato agli amici più stretti – che invece sia proprio l’emotività ad animare questi dibattiti virtuali”.

venerdì 30 novembre 2007

Un'intervista de "Il Corriere della Sera"


Come va, Deborah Bergamini?

«Va che una mattina ti svegli e scopri da un giornale di essere stata intercettata. Per giorni, settimane, mesi? Pezzi della tua vita personale e di lavoro girano per le redazioni.... Non sono più la stessa persona di una settimana fa. Mettere una vita in piazza non è dignitoso per nessuno. Nè per chi lo fa. Nè per chi è titolare di quella vita»

Lei ha ricevuto una «dispensa dall’attività lavorativa».

«Sì. E chiedo di sapere su quale base. Io non ho capito la ragione. Ho visto fretta. E, appunto, emotività nel giungere a una conclusione. Che era poi questa».

Dicono che lei non abbia collaborato con il Comitato etico incaricato di ascoltarla giorni fa. Avrebbe fatto scena muta.

«Non è così. Non ho nulla da nascondere. Visto che siamo in un Paese civile, ho chiesto di poter rispondere sulla base delle trascrizioni originali e non su un recoconto giornalistico che parte da un teorema. Non credo sia giusto giudicare una persona su quelle basi. O è pretendere troppo? Ho chiesto alla Procura di Milano di avere i testi che mi riguardano».

Ma quelle trascrizioni descrivono un asse Rai-Mediaset ben chiaro. Che ruota intorno a un perno: Silvio Berlusconi.

«Intanto sono brogliacci e non trascrizioni. Non c’è alcun "inciucio" o asse Rai-Mediaset. Abbiamo combattuto una battaglia sanguinosa per gli ascolti. I dati parlano da soli. la Rai ha vinto otto periodi consecutivi di garanzia. Altro che inciucio. Il resto sono solo parole»

Ma lei ha sentito o no spesso Mauro Crippa di Mediaset nelle ore della morte di Giovanni Paolo II e delle elezioni dell’aprile 2005 È vero che i palinsesti venivano modificati «insieme», che tutto doveva «tornare utile» a Berlusconi?

«No. Non è vero. L’aspetto più assurdo è che tutto nasca dalla sintesi giornalistica di una sintesi di un brogliaccio... Proprio per tutelare la mia dignità e l’azienda credo che sia importante acquisire la documentazione originale. Ho sentito Crippa? Sì. Come ho fatto in tutti questi anni con i dirigenti Sky, della 7, della BBC, di France Télévision, della Tv spagnola... Preoccupazioni per Berlusconi? In cinque anni di lavoro alla Rai mi sono preoccupata solo dell’azienda, dei suoi risultati, delle vittorie. La morte del Papa e quelle elezioni furono due eventi straordinari che si sovrapposero. I palinesti furono stravolti. Chissà quante telefonate furono scambiate in quei giorni. Parlo con chiunque, se è necessario al mio lavoro».

Avete «ritardato» dati elettorali «scomodi» per Berlusconi?

«Non è così, non è così. E i documenti di cui l’azienda dispone lo confermano».

Lei è stata assistente personale di Berlusconi. È un fatto.

«Sì. Ed è una colpa, un peccato originale? No. Ho lavorato anche per Bloomberg. Mi dovrei vergognare anche di quell’esperienza?»

Non negherà che in Italia esiste il conflitto di interessi.

«Perchè lo domanda proprio a me? Io in questi cinque anni ho lavorato per una sola azienda: la Rai».

E le telefonate tra Del Noce, Rossella, Mimun...

«Rispondere anche degli altri? Questo mi pare troppo, scusi».

Deborah Bergamini, la plenipotenziaria del Cavaliere in Rai.

«Lo hanno detto, lo so. Ma chi ha collaborato con me sa quanto io abbia lavorato seriamente e duramente per la Rai».

Delusa dal comportamento della Rai?

«Non mi sono sentita difesa dall’azienda. Il presidente Petruccioli ha detto in assemblea all’Usigra: "Ora, rispetto al passato, non ci sono più zone d’ombra impenetrabili". Ma a cosa si riferiva?»

Ha avuto solidarietà all’interno della Rai?

«Molta, sul piano personale. Mi sarebbe piaciuto qualche gesto pubblico in più».

Ma perchè ha aperto un blog on line sul suo caso (www.deborahbergamini.it)?

«Perchè non ho nulla da nascondere. Ho pensato che fosse una buona occasione per capire. C’è uno spazio aperto per dibattere. Serve a me. Serve agli altri».Marco Follini, neo-responsabile della Comunicazione del Pd, ha detto: Deborah Bergamini regista dell’inciucio Rai-Mediaset? Mi sembra più una fiction che un reality«Forse, se ci si prende il tempo di rfilettere, le valutazioni diventano più serene...»

Paolo Conti

L'intervista su "Il corriere della sera"

mercoledì 28 novembre 2007

Le marchette della Rai

di VittorioFeltri

In Italia si va a ondate, anche di quella roba lì. Prima l'ondata che il governo va giù con una spallata di Berlusconi e invece sta su, poi l'ondata che il Cavaliere fonda un partito nuovo e manda a ramengo gli alleati, infine l'ondata che la Rai e Mediaset hanno fatto comunella, e la Repubblica se ne accorge e pubblica delle intercettazioni telefoniche: la prova che i giornalisti e i dirigenti della rete privata e di quella semipubblica si parlano. Sai che notizia. Vi rivelo un segreto: anch'io ho chiacchierato al cellulare addirittura con Bruno Vespa. Giuro. E anche con Gianni Riotta. Perfino con Mimun. Una volta mi sono spinto a Pier Silvio Berlusconi: abbiamo discettato di Range Rover. Se mi avessero intercettato figurerei come un ricettatore di "fuoristrada", noti come Suv. Non bastasse tutto ciò, arriva Celentano che fa una marchetta ributtante in favore di Prodi del quale canta le laudi senza vergogna. Quando Adriano ogni biennio appare in video lo inonda di saliva per ingraziarsi la sinistra, la quale lo ricambia con scrosci di applausi e trasformandolo in santino cattocomunista. Nove milioni di telespettatori inchiodati al teleschermo per verificare cosa dirà il vate di via Gluck. Ma cosa volete che dica? Le solite scemenze ecologiche, i soliti luoghi comuni da sezioni Arci e Acli, il cemento è brutto e l'erba è bella, il nucleare fa la bua al pianeta, l'aria buona (...) (...) è migliore di quella cattiva. E naturalmente Romano Prodi è una brava persona. Tutte queste melensaggini non fanno scandalo. Vuoi mettere le conversazioni di Deborah Bergamini con qualche amico di Canale 5? Adesso ce l'hanno con lei che, tra l'altro, è una bella ragazza alta e sa i casi suoi: eppure rischia di pagare per tutti. Assurdo. Non ha colpe. Non c'è verso di placare le ire progressiste. I compagni sono persuasi che ci fosse un complotto per danneggiare l'Unione e aiutare la Casa delle libertà. Immaginarsi. Lo stesso presidente della Rai, Petruccioli, ha detto che la sua azienda «è stata spesso violentata, e non da uno solo; però non è puttana». Puttana forse è troppo, ma pronta a darsi senz'altro, soprattutto a chi ha più potere. Basti pensare che l'ex monopolio è sempre stato governato dalla politica ed è pieno di raccomandati, di gente pagata per grattarsi, trombettieri e tifosi di Celentano. Quando il Cavaliere era a Palazzo Chigi, ogni giorno l'Osservatorio di Pavia lanciava un comunicato: eccessivo spazio alla destra, poco alla sinistra. Da un anno e mezzo l'Osservatorio tace. Sparito. Non fornisce un dato, un numerino, una statistica. Per scoprire come stiano le cose sotto il centrosinistra s'è dovuto attendere una inchiesta di Italia Oggi, quotidiano diretto dall'ottimo Franco Bechis. Dalla quale si evince che il nuovo telegiornale, per altro ben fatto da Gianni Riotta, già vicedirettore del Corriere della Sera, fatalmente riserva al premier il doppio dello spazio che Mimun riservava a Berlusconi. Lungi da me l'idea di criticare Riotta. Sono del parere che i minuti regalati a un personaggio della politica dipendano da una somma di motivi, quasi sempre giornalistici; e che un direttore debba essere libero di scegliere non solo gli argomenti da trattare e i leader su cui soffermarsi, ma anche la cosiddetta tempistica. Ciò che stupisce semmai è che la sinistra si stracci le vesti se va in onda Silvio e consideri fisiologico se va in onda Romano. Due pesi e due misure paradigmatici della malafede di certa politica, incline a gridare allo scandalo per la pagliuzza degli avversari e a perdonarsi per le proprie travi.


L'editoriale di Feltri

E la tv torna immacolata

di Maria Giovanna Maglie

Non sarà che fra una dichiarazione indignata e l'altra sulle intercettazioni telefoniche, un'inchiesta dell'Ordine e una di Calabrò, un Cappon che tuona e un articolo 21 che si torce le budella, non sarà che finisce con il solito strausato capro espiatorio, ovvero che l'unica da allontanare per sanare il male e restituirci la Rai più linda e monda che pria, risponderà al nome di Deborah Bergamini? In fondo è l'ultima arrivata, non fa parte in alcun modo del teleclan, fatto di persone che si sostengono odiandosi da tempo immemorabile, e pure femmina è, nonché ex segretaria, parola che ogni concetto malevolo può evocare, del Cav.
Basta guardare il curriculum vitae di Deborah Bergamini per capire che in Rai non sarebbe mai entrata per meriti, ma solo grazie a una spinta potentissima. Laureata in Lettere e Filosofia presso l'Università di Firenze, ha conseguito un Diploma Post-Laurea in «American Studies» presso lo Smith College di Northampton, Massachusetts, Usa, focalizzato sul Marketing Politico. Giornalista professionista dal 1999, lavora nella redazione televisiva internazionale di Bloomberg a Londra dal 1997 al 1999 come giornalista e anchor, sia per il canale in lingua inglese che per il canale in lingua italiana. Precedentemente, lavora a Parigi in qualità di caporedattore per l'editore internazionale Analyses et Synthèses, specializzato in pubblicazioni del settore finanziario e bancario. Dal 1999 al 2002 sta nello staff di Silvio Berlusconi e segue le campagne elettorali amministrative e politiche del 2000 e del 2001. Parla correntemente inglese, francese e spagnolo. Nel 2002 viene assunta in Rai, prima come vice, poi direttore del marketing. Tutto qui, capito? Noi sappiamo che tre lingue in Rai è il requisito minimo, sui dottorati Usa ci sputano sopra, i piani aziendali si fanno ad Arcore, anche con Prodi al governo.
In realtà il ridicolo ha circondato lo «scoop benedettino» di Repubblica dal primo momento. Loro hanno scritto che, tra una telefonata di Mimun a Rossella, una della Bergamini a Mauro Crippa, proliferava «la centrale unificata di un'informazione omologata e addomesticata, al servizio cieco e totale del berlusconismo al potere». L'ex direttore generale Pier Luigi Celli gli ha risposto che così si faceva anche ai tempi suoi, Walter Veltroni pure ha detto: «Considero la vicenda Rai gravissima (...) ma non c'è sempre il complotto, le cose vanno come vanno». Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, non proprio Cuor di Leone, ma pur sempre garante della nostra libertà individuale, ha ricordato che «le intercettazioni sarebbe bene che restassero dove devono restare, almeno fino a che c'è il segreto istruttorio».
È tutto ridicolo, soprattutto quando i rivelatori di queste intercettazioni pensano di farci credere che alla Rai di oggi i direttori nominati dall'Ulivo non parlano di palinsesti e di notizie del telegiornale, se riguardano le notizie «sensibili», per Prodi e il suo governo. Tuttavia, qualcuno potrebbe rimetterci il lavoro. Io non ci sto.

Il commento della Maglie

domenica 25 novembre 2007

Il tempo che passa. Scontro fra generazioni per il telecomando




di Andrea Piersanti

C'è uno scontro fra generazioni nella tv italiana. Il pubblico televisivo è invecchiato ma il telecomando è usato anche dai bambini e dagli adulti. A coniugare gusti e scelte così differenti interviene la tecnologia. Accanto alla tv generalista (Rai e Mediaset), si registra lo sviluppo del satellite di Sky e le offerte dei nuovi media, come Internet e la tv sui telefonini.
I numeri dell'Auditel però ci dicono che le fiction tv, pensate e scritte per un pubblico maturo, mantengono un primato impressionante in Italia. Ogni anno Rai e Mediaset spendono più di cinquecento milioni di Euro per la fiction. Lo Stato, per il cinema italiano, ne spende non più di cento. Al pubblico in pantofole, le fiction tv raccontano storie rassicuranti sull'Italia di provincia e sul nostro passato recente.
Quasi cinque milioni di italiani, intanto, hanno scelto però un'altra tv, quella satellitare. Molti lo hanno fatto per le partite di calcio. Ma, fra un goal e l'altro, hanno scoperto un'offerta inedita, quella dei telefilm americani. Da "Doctor House" a "Lost", da "Csi" a "Desperate Housewives". I contenuti sono molto diversi da quelli delle fiction italiane. Pragmatismo empirico e relativismo etico e culturale caratterizzano la maggior parte di questi prodotti di Hollywood.
Fra questi due schieramenti si pone, come terzo incomodo, la programmazione de "La Sette", un prototipo di "smart tv" (tv intelligente) con approfondimenti giornalistici e l'unico programma nazionale gratuito dedicato specificatamente ai documentari ("La 25ma ora" di Elisabetta Arnaboldi).
Nelle famiglie, però, sono i bambini a comandare. In questi ultimi due anni è esploso un prodotto d'animazione tutto italiano, le "Winx" (ora anche al cinema). Educativo e rispettoso (il male si vince solo se uniti), il cartone è adorato dalle bambine.
All'appello mancano gli adolescenti. In Italia come negli Usa, dai 15 ai 25 anni si usa solo Internet. Per vedere cosa? "YouTube", per esempio, il sito con i video autoprodotti dagli adolescenti di tutto il mondo diventato famoso per le sequenze sul bullismo scolastico. Intanto il mito degli ex adolescenti, "Mtv", la tv musicale, sta invecchiando rapidamente e ha aperto un canale pensato per la mezza età con i videoclip degli anni Ottanta. Come passa il tempo, anche in tv.

giovedì 1 novembre 2007

martedì 9 ottobre 2007

Il retroscena UN MANUALE DI MARKETING TV PRESENTATO A VIALE MAZZINI



di Andrea Piersanti

Enrico Letta ha fatto cambiare idea a Deborah Bergamini, direttore marketing della Rai. La sua prefazione del "Manuale del marketing tv" curato da Carlo Nardello e Carlo Alberto Pratesi (sesto volume della collana "Zone" diretta dalla Bergamini) era stata già spedita in tipografia. Poi, insieme con Nardello, la Bergamini è andata a "VeDrò", il convegno per giovani manager organizzato ogni anno da Letta. Ne sono rimasti entrambi impressionati.
"C'è una voglia di futuro che è reale e tangibile – hanno detto agli amici -. A VeDrò l'abbiamo percepita concretamente. Ma c'è anche una difficoltà di sistema. Come manager tv non possiamo far finta di niente". Detto fatto, la Bergamini ha mandato in tipografia un testo completamente nuovo.
"Stiamo perdendo la capacità di guardare avanti, di intendere il futuro come una prospettiva – si legge nella sua nuova prefazione del libro che è stato presentato la scorsa settimana in Rai alla presenza di Giancarlo Leone e di Claudio Cappon -. E questo non sta accadendo solo a livello individuale o sociale, ma anche nell'ambito dei media, e più specificamente della televisione. Noi manager tv lamentiamo un forte calo di creatività, di propensione al rischio, ci guardiamo attorno in cerca di idee qualificanti. E intanto ci accontentiamo di riprodurre il presente pervasivo nel quale sembriamo tutti impigliati: la tv assomiglia sempre di più ad un reality senza fine. Capiamo tutti che così non può andare".
Nella settimana in cui il destino del CdA della Rai sembra essere appeso al filo dei voti che Mastella dispone in Commissione di Vigilanza, le parole della Bergamini aprono a suggestioni inedite.
"Il servizio pubblico – scrive - porta su di sé la responsabilità di riflettere e decriptare l'evoluzione della società, che mi sembra oggi ad un bivio fondamentale: la ricostituzione di una nuova società oligarchica, ancor più divaricata fra ricchezza e povertà, in cui il criterio sociale è quello della cooptazione e della conservazione, o una società "demodinamica", cosi come definita da Pierre Lévy, una società che abbia come suo fondamento non più il potere ma il potenziale. Quindi una società per definizione inclusiva. Il servizio pubblico radiotelevisivo, per sua natura, deve essere parte sostanziale della seconda opzione".
Per riuscirci, scrive la Bergamini, la Rai "deve accettare che il senso di una società inclusiva, basata sul potenziale anziché sul potere, si fonda necessariamente sullo sviluppo dell'intelligenza individuale e collettiva, sulla chiamata a responsabilità del singolo prima di tutto verso se stesso e poi verso la società. Esiste un denominatore comune: l'uomo. Credo che l'uomo sia la fonte da cui bisogna scavare per risolvere tutti quei problemi che la vita ci dà come gioco di intelligenza, ma che se non risolti non possono che determinare una regressione di massa E qui la televisione pubblica può davvero trovare un ruolo primario da giocare: riabituare il cittadino ad una cultura umanista della vita che lo veda come protagonista responsabile della società. Libero dai luoghi comuni codificati dai media".

mercoledì 12 settembre 2007

Family Movie



di Andrea Piersanti

Non c'e' tregua per i difensori del divorzio. Dopo il salutare shock del "family day" di maggio (un milione e mezzo di persone in piazza per difendere la tradizione del focolare) ecco che arriva una nuova bomba: il film piu' atteso della stagione, infatti, e' un tipico "family movie".
Si tratta dei Simpson, gialli e caustici come la soda, ma attaccati alla famiglia tradizionale e monogamica come nessun altro. Con uno slang moderno e che i giovani di tutto il mondo considerano irresistibile ("Eat my shorts", o "ciucciati il calzino" nella traduzione italiana, ripete spesso il piccolo Bart) i Simpson sono da venti anni uno dei fenomeni piu' significativi e longevi della programmazione televisiva di tutto il mondo.
Adesso nelle sale arriva anche il loro primo film che fa piazza pulita, una volta per sempre, di tutti i luoghi comuni che si sono accumulati su questa serie di cartoons. Da sempre, infatti, ci dicono che le avventure dello sciocco ciccione Homer Simpson mettono in ridicolo i valori della tradizione. Chiesa e famiglia, secondo quanto avrebbero provato a farci credere, ne uscirebbero a pezzi.
Il film, che e' destinato a far registrare record di incassi, traccia invece una linea netta. La famiglia e' al primo posto e anche la Chiesa non si comporta poi cosi' male. Alla faccia di quelli che ci volevano far credere che i Simpson fossero ottimi testimonial degli "antifamilisti". Gia' una decina di anni fa, in tempi non sospetti (e la notizia fino ad oggi e' rimasta accuratamente inedita), le associazioni italiane di genitori volevano dare un premio all'autore dei Simpson, Matt Groening. Non se ne fece nulla perche' l'interessato non volle spostarsi in Italia per ritirare il riconoscimento. Peccato. Un'occasione sprecata.
Groening ha costruito la serie battezzando i Simpson con i nomi dei propri familiari. Homer e Marge (i coniugi Simpson) sono i genitori di Groening; Lisa e Maggie, invece, sono le sue sorelline. Solo il terribile Bart e' sfuggito al sistema, per un pudore dell'ultimo minuto: avrebbe dovuto chiamarsi Matt, come il suo autore. Alla fine si optò per Bart, anagramma di "brat", che sta per "monello".
Negli Usa, la patria dei divorziati, Groening e' riuscito a costruire una macchina perfetta per la difesa del matrimonio. In uno delle migliaia di cartoni usciti in questi venti anni, si racconta la nascita del terzo figlio di Homer, la piccola Maggie. Homer deve abbandonare il lavoro che piu' ama, il bowling, per tornare a fare il custode nella odiata centrale nucleare. Sulla parete di fronte il perfido padrone appende un cartello con la scritta: "Don't forget. You're here for ever" ("Non scordarlo. Rimarrai qui per sempre"). "Doh!", esclama Homer, l'egoista. Poi comincia ad attaccare le foto della piccola Maggie sopra il cartello. Alla fine, della scritta originaria rimangono solo poche lettere: "Do it for her" ("Lo fai per lei"). Singhiozzo paterno represso violentemente in gola e titoli di coda.
(Ah, a proposito: questo articolo e' stato scritto grazie alla collaborazione di mio figlio Dario, adolescente).

giovedì 16 agosto 2007

Tutti vogliono Di Caprio, produttore ambientalista. I media Usa diventano verdi



di Andrea Piersanti

I media Usa vedono verde e tutti vogliono Di Caprio, da quando si è messo a produrre documentari ambientalisti. Dopo il lancio mondiale del documentario ecologista "L'undicesima ora" che l'attore di "Titanic" ha coprodotto con la Warner, il network televisivo mondiale "Discovery" non ha perso tempo e ha annunciato la nascita di un sodalizio strategico. Di Caprio, infatti, siede nel board di "Planet Green", il nuovo marchio tv che "Discovery" dedicherà ai temi dell'ecologia. La notizia è stata data da Eileen O'Neill, presidentessa di "Planet Green". "In questi ultimi 15 mesi –ha detto la O'Neill – la preoccupazione per una vita eco-sostenibile e per i cambiamenti climatici ha raggiunto il picco. È la tempesta perfetta per un tema così brutalmente vitale, e le ricerche dimostrano che il pubblico di Discovery è più predisposto di altri ad essere interessato a questi argomenti". La società di produzione di Di Caprio, la "Appian Way", insieme con Discovery, ha già cominciato la produzione di "Eco Town" , una serie televisiva tipo reality che seguirà gli sforzi eco-sostenibili di ricostruire la città di Greensburg, Kansas, distrutta da un tornado lo scorso anno. Per "Planet Green" è previsto un investimento iniziale di 50 milioni di dollari. Già in fase di sperimentazione da poco più di un mese su alcuni canali in Sud America, il riposizionamento "verde" di "Discovery" debutterà negli Usa a metà del prossimo inverno 2008. Di Caprio è nel consiglio di amministrazione della nuova società "Planet Green" insieme con 18 leaders di movimenti ambientalisti nei settori dei cambiamenti climatici, scienze ambientali, tecnologia e organizzazioni no profit. Gli altri componenti del CdA di Planet Green provengono da enti come "The Nature Conservancy" e "Natural Resources Defense Council. Gli sponsor saranno integrati nella programmazione con i tradizionali spot ma anche con attività diverse, spiegano a "Planet Green", come convegni e eventi promozionali destinati a richiamare l'attenzione delle società che vogliono essere affiliate nelle iniziative ecologiche. Anche l'attore Robert Redford, durante il MipTv di Cannes a aprile, aveva lanciato il "Green Channel" nell'ambito dell'attività del suo "Sun Dance Channel". L'interesse del mondo dei media americani per il tema dell'ecologia è scattato subito dopo il successo mondiale del documentario di Al Gore "Una verità scomoda" sui cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento del pianeta. Lo sforzo di "Planet Green" sarà quello di indirizzare i comportamenti e le abitudini umane in modo da sostenere l'ambiente e uno sviluppo eco-sostenibile, ha spiegato la O'Neill. Agli inizi del prossimo anno il nuovo marchio entrerà nelle case degli oltre 50 milioni di abbonati americani di Discovery. "Non è mai stato fatto niente del genere su una scala così grande – ha detto la O'Neill -. Ci apprestiamo a dare una definizione di cosa è un media verde". Proprio in questi giorni è partita la prima iniziativa di "Planet Green" per i paesi latino americani e si chiama "Descubre el verde".

mercoledì 15 agosto 2007

Nessuna "Seconda Vita" virtuale. Tocca tenerci quella vera.


di Andrea Piersanti

"Second Life" è un bluff. Nel suo primo tour nel mondo virtuale creato sul web dalla Linden Lab, Michael Donnelly, capo mondiale del marketing interattivo della Coca Cola, ha detto di sentirsi come nell'albergo vuoto del film "Shining" di Stanley Kubrick. Lo racconta il giornalista Frank Rose, in un lungo articolo su "Wired" di agosto intitolato "Come Madison Avenue sta sprecando soldi nel deserto di Second Life".


Il mondo virtuale della "Seconda Vita" è disabitato ma, nonostante ciò, dal 2003 ha attirato milioni di dollari di investimenti pubblicitari, dalla stessa Coca Cola alla Nike. Secondo "Wired", uno delle fonti più autorevoli in fatto di tecnologie, dei nove milioni di iscritti ufficiali, solo 300.000 frequentano ogni tanto il mondo degli "avatar" (la rappresentazione digitale di noi stessi) ma lo fanno per visitare sex shop o discoteche e il sistema non riesce a gestirne più di settanta per volta. Un vero fallimento.


Sui media, invece, l'eterna caccia alla novità aveva gonfiato il fenomeno. Il mondo della pubblicità, preoccupato per la crescente inefficacia del tradizionale spot tv, aveva convinto i propri clienti ad investire nel mondo virtuale di "Second Life". La Reuters vi aveva addirittura aperto una propria agenzia. I costi di questa vita virtuale non sono neanche bassi. Una presentazione sulla piazza digitale costa 10mila dollari e per un'isola attrezzata con grattacieli si può spendere anche mezzo milione di dollari all'anno. Soldi veri, mica finti. Per entrare su" Second Life", infatti, bisogna esibire la propria carta di credito.


La notizia, tutto sommato, è positiva. Alcuni dirigenti delle grandi agenzie pubblicitarie passeranno un brutto quarto d'ora. Ma chi se ne importa. È bello infatti che sia finita l'illusione di potersi costruire una seconda vita di cartapesta digitale. La negazione della realtà è una forma pericolosa di nevrosi che può spesso tradursi in una psicosi vera e propria. La grande quantità di ansiolitici e di antidepressivi che vengono consumati nel mondo sono il sintomo di una gigantesca insoddisfazione collettiva. Ma è bello scoprire che la soluzione non possa essere una finzione.


C'è da rifletterci sopra. In molti avevano dubitato di questa ultima moda tecnologica. "The Guardian" aveva dato voce pubblicamente a queste perplessità già all'inizio dell'anno. Adesso arriva la secca conferma di "Wired". "Second life" non esiste e noi possiamo tirare un sospiro di sollievo. Il bombardamento di informazioni e di stress che ci arriva dal mondo reale è già a livelli di guardia. Ci mancava solo di dover trovare il tempo per un secondo mondo virtuale.


Il vero motivo di sollievo, però, è un altro. L'esplosione del fenomeno di "Second Life" sembrava una sfilata del gay pride. Tutti travestiti con piume di struzzo a rivendicare il diritto ad una vita normale. La vita, quella vera, è già qui. Non c'è bisogno di mascherarsi. È positivo quindi che la "cage aux folles" digitale di "Second Life" non abbia avuto successo. Nella confusione dei generi ci mancava solo il digitale.

venerdì 10 agosto 2007

Nessuno difende il cinema italiano. Per uccidere la tv



di Andrea Piersanti

Non se ne può più. Non passa giorno che non ci sia un proclama contro il cinema italiano. Il più recente è quello dell'attore francese Michel Piccoli. Premiato a Locarno, ha detto: "Ho ricordi di tutto il cinema italiano ed è una tristezza che sia diventato altro". La vera tristezza, però, è data dal silenzio assordante che accompagna queste dichiarazioni. Il regista di culto Quentin Tarantino (quello di "Pulp fiction" e che ora ha deciso di fare un film con Edwige Fenech) ha sempre dichiarato il suo amore per il cinema italiano del passato ma, recentemente, anche lui ha confessato che quello attuale non gli piace per niente.

Polemiche da ombrellone? Neanche per sogno. Il vero obiettivo è un altro. Antico, come la polvere dei salotti della sinistra, il vero obiettivo è ancora lei, la televisione. "È una dittatura dal punto di vista artistico, politico e sociale – ha spiegato Michel Piccoli a Locarno -. Non è importante che vi sia la qualità". Tradito da un momentaneo calo di attenzione, Piccoli ha svelato il mistero. Ecco perché nessuno difende il cinema italiano dai numerosi attacchi mediatici di questa estate cretina (come la definisce la Littizzetto). Perché sperano, in questo modo, di uccidere la tv.
In un paese normale, il ministro della cultura avrebbe dovuto insorgere contro tali attacchi. Ma, mentre Piccoli sputava sul cinema italiano, il ministro Rutelli era a Capalbio a celebrare i primi venti anni dello stabilimento "Ultima spiaggia". "La più brutta spiaggia d'Italia con la gente più bella d'Italia", parola di Barbara Palombelli (modestia a parte). Il cinema italiano da anni viene prodotto e sostenuto dalla televisione. Mediaset, tramite Medusa, e la Rai, prima da sola e ora con Rai Cinema, hanno finanziato opere prime, seconde e i capolavori dei registi più acclamati. Il cinema italiano, inoltre, ora ha ricominciato a tirare anche la carretta degli incassi in sala. Dopo la recente riforma del settore, i nostri film hanno riconquistato fette di mercato che sembravano impossibili. Il pubblico risponde e ci stiamo avviando a celebrare l'autunno dei grandi festival, a Venezia e a Roma. Al Lido, nella Mostra diretta da Marco Muller, il segnale incoraggiante viene dato dalla presenza in concorso di opere di giovani registi italiani.
Ma dall'attuale governo neanche un fiato in difesa del nostro cinema. Come Piccoli involontariamente ha fatto intendere, negando la qualità del cinema italiano si nega la qualità della nostra tv. Quella di Mediaset, perché è di Berlusconi, è ovvio. Quella della Rai, perché la lottizzazione non ha funzionato nel modo dovuto e Viale Mazzini è così diventato il teatro di scontro delle vendette incrociate all'interno della stessa sinistra.
È tutto? Ovviamente no. Sullo sfondo troneggia Murdoch con il suo monopolio satellitare. Grazie al silenzio - assenso dell'attuale governo, i canali cinematografici di Sky spadroneggiano e mille film di Hollywood rimbombano nelle case degli italiani. Com'era bello il cinema italiano, quando non c'era la tv.

venerdì 3 agosto 2007

Professione incompreso




di Andrea Piersanti

Di professione incompreso, Michelangelo Antonioni oggi, nel giorno del suo funerale, è ricordato con l'affetto e le parole di circostanza che si riservano ai maestri. Ma, negli ultimi anni di vita, le cose non erano state facili.
Ne sa qualcosa la moglie Enrica. Chissà a cosa pensa in queste ore. Forse sente di nuovo i fischi che vennero riservati al marito in occasione della proiezione al Lido, nel 1994, del suo film "Al di là delle nuvole". Dopo l'ictus che lo aveva colpito agli inizi degli anni '80, era stato l'amico Wim Wenders ad aiutarlo a tornare dietro la macchina da presa per realizzare un autentico capolavoro. Un film, "Al di là delle nuvole", dove si parla con rispetto e tenerezza anche della vocazione religiosa di una ragazza che resiste alla tentazione di un momento per mantenere il suo voto di fedeltà al Signore.
I critici cinematografici italiani sono così. Superficiali e duri di comprendonio. Antonioni, a Venezia nel '94, venne stroncato senza pietà. Tanto duramente da indurre un altro amico, Bernardo Bertolucci, a prendere carta e penna per difenderlo dall'ondata di stupidità generale che sembrava aver colto la stampa italiana.
Antonioni, prima di girare "Al di là delle nuvole", aveva deciso di sposarsi con rito religioso. Nella cappella privata della chiesa del "Preziosissimo sangue" al Fleming, a pochi passi dalla sua abitazione, si era unito nel sacro vincolo con Enrica. Lo aveva fatto senza clamore, evitando accuratamente l'attenzione dei media. Antonioni ha poi ingannato il tempo dipingendo coloratissimi quadri, con l'unica mano che l'ictus gli aveva risparmiato.
Una mano, splendidamente segnata dall'età, che sarà la protagonista del suo ultimo film, il documentario "Lo sguardo di Michelangelo" prodotto da Lottomatica e da Istituto Luce sulla base di una determinata intuizione di Roberta Lubich. La mano di Antonioni, nel breve film di poco più 15 minuti, esplora le pieghe di marmo del Mosè di Michelangelo, la statua conservata a Roma nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Un documentario dove Antonioni, su consiglio affettuoso della moglie Enrica, accetta, per la prima volta, di recitare davanti alla macchina da presa. Quasi un addio, un testamento spirituale si direbbe con retorica.
La sua mano accarezza dolcemente il marmo freddo della morte che l'arte divina del genio ha reso immortale. Un film dove Antonioni sembra voler gettare il suo "sguardo" verso quella pace infinita che aspetta tutti noi.
Anche in quel caso la stampa italiana non brillò. La Lubich, con la complicità del Luce, riuscì a vendere "Lo sguardo di Michelangelo" alla Warner per farlo concorrere agli Oscar. Durante una serata chic all'Auditorium di Roma, prima della proiezione, i produttori invitarono la stampa italiana a lanciare una campagna di promozione per far in modo che il documentario fosse portato in trionfo alla notte degli Oscar. La stampa italiana, con codazzo di politici e sindaci cinefili, guardò con ostentato rispetto il documentario, si scaraventò sul buffet, si mise in fila per stringere la mano al maestro e, poi, semplicemente, si scordò della sua esistenza. Poche righe frettolose e poi l'oblio.

martedì 24 luglio 2007

Ma i giovani preferiscono gli atenei alle discoteche




di Andrea Piersanti

Le notti estive sono dei giovani. Capaci ancora di stupire, i giovani di oggi cercano testardamente una loro specificità che sia contro le regole degli adulti. Il mondo che i nostri figli ci hanno dato in prestito, a loro non piace. Soprattutto perché non sopportano più di vedere noi adulti comportarsi da adolescenti. Basterebbe osservare le magliette colorate con le immagini del Che gonfiate in modo imbarazzante sopra i ventri prominenti di cinquantenni senza decoro, e ascoltare la musica che «unisce le generazioni» (Genesis, Rolling Stones, ecc.) che invece non fa altro che scavare un baratro fra due mondi che ormai si capiscono sempre di meno.


L'esempio più recente ed emblematico sono le 21 notti di cultura e di spettacolo che una decina di assistenti e ricercatori della Facoltà di Scienze delle Comunicazioni de La Sapienza hanno organizzato dentro la storica Città Universitaria di Roma, la stessa dalla quale, solo 30 anni fa (ma pare un secolo), venne cacciato Lama. Da un paio di settimane, migliaia di ragazzi si affollano ogni notte davanti ai palchi costruiti davanti alla scalinata de La Minerva e dentro i gazebo sui prati. Ascoltano poesie e lezioni, vedono corti e video sperimentali e, qualche volta, si ricordano anche di andare a ballare davanti alle esibizioni live di gruppi che gli adulti non hanno mai sentito nominare.


La manifestazione è organizzata da un gruppo di laureati e dottorandi (età fra i 26 e i 28). Da due mesi dormono fra le due e le tre ore per notte. Si occupano di tutto. Hanno organizzato il palinsesto dell'iniziativa (una media di una decina di eventi al giorno, fra concerti, spettacoli, lezioni e convegni), si occupano della logistica (dai palchi alle centraline elettriche), fanno l'ufficio stampa, si occupano delle pubbliche relazioni (fra gli ospiti si sono succeduti politici, intellettuali famosi, artisti) e, la notte, verso le tre, si preoccupano che nessuno rimanga chiuso dentro la città universitaria prima che i cancelli vengano sbarrati. Trovano anche il tempo di fare qualche pulizia spicciola. Sono stremati ma entusiasti.


I loro coetanei hanno risposto seriamente e con convinzione. Spesso la sera si vedono folle più numerose davanti ai convegni che davanti ai concerti. Ma il mondo degli adulti non capisce. Periodicamente alcuni autorevoli docenti de La Sapienza si lamentano perché trovano un paio di bottiglie vuote davanti alle loro facoltà o perché i gazebo tolgono spazio ai loro preziosi parcheggi interni o perché le prove sound di giorno disturbano qualche esame.


Un'occasione sprecata per il mondo degli adulti. Gli studenti sono i soggetti dell'educazione. La Sapienza ha 250mila iscritti. Pensare di gestirli secondo noiose pratiche burocratiche è uno sbaglio. Il domani appartiene a loro, non a noi. Diamo loro aria, facciamoli volare. E se durante le caldi notte dell'estate romana, invece di andare ad schiantarsi a duecento all'ora su qualche strada di periferia, preferiscono sedersi per ascoltare una lezione di storia o di fisica, dovremmo ringraziare il cielo e complimentarci con noi stessi. Non lamentarci.


(pubblicato su Il Giornale il 24 luglio 2007)

domenica 17 giugno 2007

Il paese dei David



di Andrea Piersanti


Uno scontro fra visioni diverse del paese è stato messo in scena per la consegna dei premi David di Donatello. C’erano i “centoautori”, c’era il nuovo astro Elio Germano, c’erano, ovviamente, i politici a fare la passerella, e c’erano i vincitori dei premi.

I “centoautori”, rappresentati da Michele Placido, pubblicamente e lagnosamente, hanno chiesto più soldi per fare cinema. “Ma è paradossale!”, ha commentato dietro le quinte Daniele Vicari (di sinistra ma fuori dal coro), vincitore per il migliore documentario dell’anno con “Il mio paese” della Vivofilm. “Ci si interroga su come si fanno i film, e cioè con quali soldi, e non ci si domanda mai che film si fanno. Noi dobbiamo parlare a tutti. Fare film che sappiano dire qualcosa alla gente”.

È quello che è successo con Giuseppe Tornatore. “La sconosciuta” ha stravinto ai David portandosi a casa, tra gli altri, anche la doppietta delle grandi occasioni: il premio come miglior film e come migliore regista. “La sconosciuta” era stato presentato durante la prima edizione della Festa del Cinema di Roma. L’accoglienza era stata tiepida. Ma Tornatore c’è abituato e aveva sorriso. L’establishment politico e culturale del cinema italiano, in realtà, non riesce a perdonargli di avere avuto successo (e un Oscar) con storie che parlano ai sentimenti e al cuore del pubblico.

Nel Paese dei David, il focolare del cinema italiano che Gian Luigi Rondi, come una vestale, accudisce e tiene acceso da sempre, troppo spesso infatti, nonostante Rondi, si respira aria di conformismo. Come migliore attore dell’anno è stato premiato Elio Germano, la rivelazione di “Mio fratello è figlio unico” che è stato in grado di oscurare persino l’idolo di tutte le ragazzine, Riccardo Scamarcio. È salito sul palco con la baldanza ormonale dei giovanissimi e, subito, ha inveito contro la televisione. “Basta con questa sudditanza del cinema nei confronti della tv”, ha urlato nel microfono mentre la folla (soprattutto femminile) ululava il proprio consenso. In platea c’erano, un po' perplessi, anche Giancarlo Leone di Raicinema e Giampaolo Letta di Medusa, gli unici in Italia che, con De Laurentis, si impegnano nella produzione e nella distribuzione del cinema italiano.

Alla fine della festa, però, il dubbio rimane. Che film facciamo, si domanda Vicari. Che paese raccontiamo? Nonostante il banale conformismo del giovane Germano, nonostante la rituale e imbarazzante passerella dei politici sul palco, nonostante l’insistita richiesta di assistenzialismo statale da parte dei “centoautori”, dai David di quest’anno se ne esce consolati.

Non c’è nichilismo né qualunquismo, per esempio, ne “La sconosciuta” di Tornatore. I valori, quelli veri, quelli in grado di tenere in piedi un paese, ci sono tutti. La solidarietà, la giustizia, l’amore per il prossimo. Anche quando il mondo è pieno di cose orrende e di delitti innominabili. La stessa schiettezza che si trova nel “Mio paese” di Vicari. Una nazione, la nostra, che ama sé stessa e che vuole un futuro migliore.

Se i politici, fra una passerella e l’altra, trovassero il tempo per occuparsene.


pubblicato su Il Giornale il 17 giugno 2007

Lo sbaglio di Freccero sui Nanoshare




di Angiolino Lonardi

La discussione mediatica alimentata negli ultimi tempi dai cosiddetti nanoshare non è ancora riuscita a sviluppare un pensiero prospettico sull'argomento. E sorprende come la superficialità dei giudizi, quando non l'errata informazione, provenga anche da un esperto di comunicazione come si definisce Carlo Freccero.
Ci troviamo di fronte a un modello diverso del fare televisione, diverso nella propria definizione di target, diverso negli obiettivi di servizio e perciò diverso anche nei numeri prodotti. Il digitale terrestre, e nello specifico RaiUtile, impone un rovesciamento culturale nella predisposizione a un medium ora più vicino al proprio etimo: quello pragmatico di mezzo, di tramite.
Formazione, servizi sul sistema paese ma soprattutto il trasversale ausilio degli strumenti interattivi del canale richiedono una lettura attiva e non più passiva di un ascoltatore direttamente coinvolto nella propria sfera di interessi.
In sintesi, non si tratta più di definire un minimo comun denominatore per rivolgersi a un numero massimo di persone, quanto di rintracciare il maggior numero delle filiere di target cui adeguare contenuti e servizi specifici. Si tratta quindi di un modello di business semplicemente diverso da quello tradizionale (...)
Che tutto ciò si esaurisca poi con un zero virgola appare quanto meno riduttivo, ma se anche su questi numeri Auditel c'è chi gioca al ribasso, non lo riteniamo obiettivamente giusto. Nell'ultima settimana (da mercoledì 6 a martedì 12 giugno), RaiUtile ha prodotto una media di 86mila contatti netti giornalieri, che equivalgono al 52 per cento in più rispetto ai cugini di Rai Edu2 e al 13 per cento in più su Rai Edu1. (...)
Ma è attraverso l'analisi delle fasce di ascolto che il canale dimostra la propria utilità e anche (a qualcuno sembrerà incredibile) la propria notorietà: dalle 7 alle 9 RaiUtile vale infatti quasi il 40 per cento dell'intera offerta Rai digitale (Rainews24, Rai Sport Satellite, Rai Edu1, Rai Edu2) con una media nelle 2 ore di 10mila contatti netti e un ascolto totale di 3.400 individui. Buoni anche i risultati nell'altra fascia di diretta (9-12) e nel primo pomeriggio (12-15), rispettivamente con 11.500 e 22mila contatti netti.
Tra gli argomenti più seguiti: le politiche sull'ambiente, le pensioni, il mercato del lavoro, la famiglia, i servizi della pubblica amministrazione. Dati significativi, figli di un Auditel che ritengo comunque essere un rilevatore inadeguato al mezzo per almeno due aspetti fondamentali. (...) Copre il segnale digitale terrestre ancora a macchia di leopardo. Non si occupa dell'interattività, che è la frontiera su cui RaiUtile si sta cimentando.

pubblicato su Il Giornale il 17 giugno 2007

domenica 3 giugno 2007

Poesia. NO!

di Andrea Piersanti
NO!
Onda di mare
vieni e proteggimi
travolgimi di schiuma
di movimento e di freddo
distruggimi
nel verde immenso
della tua profondità
e con ogni nuova corrente
partoriscimi di nuovo
nuovo e bagnato
ormai convinto
che tu sola
vivi e ti muovi
in questo immobile
perchè io asciugato dal sole
vorrei amarti da capo.

16 giugno 1979

sabato 2 giugno 2007

L'anno zero della Rai


di Marco Palmisano

L'altra sera, su Raidue, dalle 21 alle 23.50, quasi tre ore di trasmissione pagata con i soldi dei contribuenti, è andata in onda la puntata del programma di Santoro interamente dedicata al filmato inerente gli scandali di tre preti inglesi accusati di pedofilia.
Il programma si intitola Annozero, ma di zero, in quella puntata c'era ben più del nome, a cominciare dal conduttore. Zero in condotta a Santoro per la perfida macchinazione orchestrata a danno della Chiesa e attuata strumentalizzando cinicamente una tristissima vicenda umana di pedofilia. Zero in condotta alla Rai per aver consentito l'acquisto del filmato della BBC, televisione di Stato del Regno Unito, notoriamente incline a favorire e a promuovere ogni tentativo di manipolazione della verità a danno della Chiesa cattolica. Zero in condotta infine ad alcuni ospiti della puntata che, non vedendo l'ora, hanno dato ampia prova di sé, della propria ignoranza o della propria malafede, attribuendo addirittura a Papa Ratzinger la responsabilità di mancate condanne o denunce di tali fatti. Gravissimo e falso anche questo.
Ma siccome, talvolta, è dai particolari che si capisce l'insieme, basti solo segnalare la conclusione del triste programma. Bene, dopo circa tre ore di denunce, scandali, violente accuse di pedofilia ai preti e di omertà alla Chiesa, ecco il gran finale del circo: un modesto vignettista di bottega, spronato dal conduttore, si esibisce in una sequenza di illustrazioni a tratto, improvvisate durante il corso della puntata. Vignette insulse contro il Papa, la Chiesa, naturalmente Berlusconi e Fini, ma tutte aventi a tema l'infamante e doloroso tema della pedofilia. Una battuta di una vignetta rappresentante un alto prelato diceva: «lasciate che i bambini vengano a me». Altre amenità del genere completavano il penoso quadro. Di fronte a questo scempio, il sagace conduttore, l'immancabile Travaglio, il vignettista, la maggioranza degli ospiti e anche lo spietato fustigatore di costumi della BBC, unitamente all'intero studio, si sbellicavano dalle risa. Invece, inquadrati di sfuggita dalla telecamera, in un angolo, un parroco siciliano che lotta contro la pedofilia e il bravissimo Mons. Fisichella, apparivano rinchiusi in un dignitoso silenzio. Il loro sguardo a mala pena celava la tristezza per lo squallido spettacolo del dolore altrui trasformato in occasione di riso, di scherno e di stupida ironia, ma così è. Unicuique suum.

E questo è il punto. Mentre taluni godono e prosperano sui dolori altrui, cogliendone occasione di propaganda personale per costruirsi la fama di moralisti a danno dei propri bersagli, altri, più uomini e meno vigliacchi, soffrono realmente e partecipano in silenzio di fronte al dramma umano della miseria, della sofferenza, del male e del peccato che sono in tutti noi.
Per questo la stragrande maggioranza del popolo italiano vuol bene alla Chiesa ed è affezionato ai propri preti che, da decenni e secoli, accompagnano ciascuno di noi dentro la faticosa strada della vita, insegnandoci a non cedere mai al male e ad aver sempre lo sguardo fisso sulla speranza che proviene dalla Verità. Non solo a parole o dai pulpiti, ma con centinaia e migliaia di esempi e di opere concrete di testimonianza e di carità, sparse in ogni angolo d'Italia e del mondo.
Dopo duemila anni di presenza della Chiesa nel mondo, adesso, sembra proprio di essere tornati all'anno zero. E così, di fronte alla ripresa di una nuova è più significativa presenza della Chiesa nella vita pubblica dei cittadini, inevitabilmente, si ripresentano i nuovi Giuda, gli Erode e i nuovi Ponzio Pilato, con i loro centurioni, lacchè e sacerdoti della legge. Gesù ci ha insegnato che non bisogna temere ma, pregando il Padre che è nei cieli, perdonare a questi stolti perché non sanno quel che dicono.

Intanto, in attesa dei prossimi attacchi che sicuramente arriveranno, seguiamo anche noi l'invito di Vittorio Messori ad organizzarci e a saperci difendere dalle infamie. Per questo segnaliamo www.cadlweb.org, il sito della Catholic Anti-Defamation League, il cui Presidente, Pietro Siffi di Ferrara, da mesi sta raccogliendo ogni giorno centinaia di adesioni. Ci uniamo volentieri a lui prima che sia troppo tardi.

© il Giornale, 2 Giugno 2007Web
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=182295
il Giornale, pagina 16

mercoledì 16 maggio 2007

“Olmi, per fortuna l’ultimo film”



di Andrea Piersanti

“L’unica cosa che c’è di buono è che sarà l’ultimo film di Olmi”. Il giudizio è di Dario Edoardo Viganò, presidente dell’Ente dello Spettacolo e preside della “Redemptor Hominis” alla Lateranense di Roma. “Centochiodi” non è piaciuto alla cultura cattolica. La notizia non è pubblica. È un passaparola sotterraneo. Solo ieri qualcosa è emerso.

Viganò, nel corso di un’intervista su “Gesù e cinema” a Raiutile, è stato esplicito. “Il Gesù raccontato da Olmi è talmente didascalico da essere banale”. In contemporanea, su “Avvenire”, il direttore Dino Boffo, ha risposto ad un lettore scontento del film di Olmi. “In tal senso facciamo totalmente nostre le sue considerazioni girandole, come domande sostanziali, al grande regista”, scrive Boffo. Strana ma bella: una polemica fuori tempo massimo. Il film è uscito già da alcune settimane. Le platee cinematografiche sembrano aver gradito. I critici hanno applaudito, come si conviene, al grande maestro. Ecc. Tutto bene, quindi. Tranne il mugugno dei cattolici che è cresciuto fino ad esplodere pubblicamente.

Proprio in questi giorni il popolo della Chiesa esce vincente dalla prova del “Family Day”. Contro le prefiche del laicismo che ormai non sanno più come gestire, politicamente, il quotidiano eroismo delle famiglie italiane, centinaia di migliaia di persone normali sabato scorso a Roma hanno danzato, cantato e gioito, alla faccia della politica e degli intellettuali. Non è un caso, forse, che proprio in questi giorni venga abbattuta anche la statua di Olmi.

Il grande “maestro” però se l’era cercata. Nella locandina del suo ultimo film campeggia uno slogan che sembra dettato dalla Bonino: “Le religioni non hanno mai salvato il mondo”. Scrive il lettore di “Avvenire”: “Cosa vuol dire che ‘le religioni non hanno mai salvato il mondo, esse possono servire solo a salvare sé stesse’? Nel furore del suo j’accuse contro la modernità, possibile che Olmi non capisca che anche all’inferno Dio è capace di liberare l’uomo? Dio sa scendere nella spazzatura! Lo fa sempre, lo ha sempre fatto”.

Raz Degan, il protagonista del film con un bel visetto accuratamente pseudo-cristologico, recita la battuta più dura del copione scritto da Olmi, quasi una bestemmia: “Dio dovrà rispondere di tutta la sofferenza che c’è nel mondo!”. Appassionata la replica del lettore di “Avvenire”: “Dio avrebbe la colpa di aver voluto un mondo reale? E come avrebbe potuto senza lasciare il dramma della libertà? È dalla libertà che viene il male. Ma Olmi se l’è dimenticato?”. Sembra già di sentire una eco andreottiana: ma in un momento così, non era meglio lavare i panni sporchi in famiglia?

“È polifonica la storia del rapporto fra cattolici e cinema in Italia - scrive Viganò nel suo libro “Attraverso lo schermo” -. Ma l’impressione finale non è quella di una frammentazione o di una dispersione, quanto piuttosto quella di un progetto unitario perseguito con mezzi differenti: la volontà di contribuire, attraverso lo schermo, a una maturazione morale e civile della società italiana e della sua cultura”. Anche con Olmi.


Pubblicato su Il GIornale del 16 maggio 2007

martedì 15 maggio 2007

Il vero coraggio è quello di far famiglia


di Marco Palmisano

Piazza San Giovanni a Roma: oltre un milione di persone a celebrare festosamente, insieme, il primo significativo Family Day d’Italia. Poco distante,in un’altra piazza di Roma, poche migliaia di persone riunite dai radicali e Rosa nel pugno festeggiano, a loro dire, il “coraggio della laicità”.

Partiamo da questi secondi e chiediamoci che cosa significhi questo coraggio della laicità, ricordando bene tutto il male che, in oltre trent’anni di storia nazionale, questa minoranza ha saputo fare al nostro popolo e alla nostra gente. Divorzio legalizzato nei primi anni 70, aborto come pratica incentivata poi, liberalizzazione delle droghe negli anni ‘80 e ‘90, per arrivare, infine, in questi ultimi anni, alla richiesta di rendere libera l’eutanasia, sotto l’ipocrita nome di dolce morte. Ecco fatto, questo è il curriculum dei cosiddetti campioni della laicità: veramente una meraviglia di umanità e un tripudio di vita!

In realtà, questi signori sono da compatire, perché di fronte alla fatica coniugale, a quella della nascita e dell’accettazione di un bambino non desiderato e, buon ultimo, di fronte al limite del dolore e della morte essi preferiscono tagliar corto e, per abolire queste prove dolorose, preferiscono abolire il soggetto stesso che le compie, cioè l’uomo e la donna, ovvero l’esperienza umana iniziata in ciascuno di noi. Alla faccia della laicità!

Di fronte a questa impostazione culturale storicamente comprovata in tutta la sua gravità, da secoli, si erge la voce della ragione e della coscienza di ogni uomo e donna di buona volontà. I dolori e le fatiche, dice la Chiesa, fanno parte della nostra vita, ed è proprio in esse che noi sperimentiamo di essere comunque amati. Questa è il motivo che permette ad un uomo e ad una donna che si vogliono bene di far famiglia e di mantenerla unita per tutta la vita, di fronte a Dio e a gli uomini; questa è la ragione per cui accettiamo di amare sempre i nostri figli e soprattutto di farli e, infine, questa è anche la ragione per la quale quel giorno, quando il Mistero vorrà, saremo pronti ad affrontare, sereni, l’ultimo viaggio verso la casa del Padre. Questa è la vita.

Di questa vita, di questa ragione, di questa fede cristiana e perciò di questa cultura, a Roma, sono stati testimoni il milione di persone protagoniste del Family Day. Presenti loro a nome di tutti e per questo li ringraziamo. Presenti e consapevoli di quello che, nelle stesse ore, il Papa, dal Brasile diceva al mondo: l’attacco alla famiglia disgrega nazioni e società in nome del relativismo e del laicismo. Per questo, oggi, fare famiglia, difenderla e in essa fare figli, amarli e saperli educare, rappresenta il compito storico in assoluto più meritorio di qualsivoglia altra battaglia politica.

In conclusione una nota di colore che la dice lunga. A Roma, in piazza San Giovanni erano in tantissimi, allegri e festanti, da tutta Italia, con musiche e canti popolari della tradizione dialettale e religiosa ma, soprattutto, uniti e allietati dalla presenza gioiosa di migliaia di bambini di ogni età.
Sempre a Roma, nell’altra piazza, erano pochi, vocianti più che festanti, molto drogati, con faccia triste, molto omosessuali, non è una una colpa ma, inevitabilmente, con quasi nessun bambino. Decidete voi dove stia di casa la vita e il nostro futuro, laicamente e con coraggio.


Marco Palmisano Presidente Club Santa Chiara mpalmi@gmail.com
pubblicato su Il Domenicale il 19 maggio 2007

I giovani e il mondo dei media

di Deborah Bergamini

Dove sta andando il mondo dei media? E quali sono i nuovi mezzi di informazione e di intrattenimento che prevarranno nell’imminente futuro tra le generazioni più giovani?

Su questa scommessa si stanno muovendo le multinazionali del settore, dalle società telefoniche a quelle televisive, per non parlare dei colossi di Internet, fino ad arrivare alle aziende legate al mondo della pubblicità. E insieme a loro si muove una massa sconfinata di denaro, tanto ingente quanto incerta nella direzione da prendere. Una cosa però è sicura: le fortune del mondo dei media si giocheranno solo a livello globale, le barriere culturali e geografiche si infrangeranno e l’individuo, nell’approvvigionarsi di informazioni e di intrattenimento attraverso i mezzi digitali, sarà sempre di più un individuo.

Le incertezze nel prevedere l’evoluzione del mondo della comunicazione, e il rischio di incamminarsi in direzioni sbagliate, sono lo scotto che le grandi aziende si trovano a pagare dopo anni in cui gli investimenti nel settore dei media sono stati focalizzati sulle nuove tecnologie, piuttosto che sui contenuti da veicolare. L’enorme velocità dei progressi tecnici ha legittimato una “corsa alle piattaforme” che ha messo in secondo piano l’importanza e il valore delle cose da comunicare. O che forse ne ha coperto la mancanza. Per un po’ si è riusciti ad applicare le vecchie logiche “analogiche” al nascente mondo digitale. Poi, mano a mano che la dimestichezza con i mezzi digitali aumentava e gli utenti scoprivano di avere esigenze del tutto nuove e più personali, si è compreso che quelle esigenze avrebbero dovuto ottenere risposte adeguate. E’ partita così la corsa ai contenuti. Che però continuano a tardare. I vecchi depositari della comunicazione analogica si sono scoperti incapaci di pensare e creare in modo innovativo; i custodi del progresso tecnologico hanno dovuto ammettere che una cosa è sviluppare le nuove piattaforme e un’altra è sperimentare nuove idee e renderle attrattive ad un pubblico sempre più sofisticato ed esigente.

Il risultato è stato che il pubblico stesso si è sostituito ai fornitori di contenuti: è diventato esso stesso un creatore. Sono nati i fenomeni legati al mondo dei blog e subito dopo le grandi esperienze globali dei siti internet alimentati con video e creazioni spericolate da parte degli stessi utenti. Da MySpace a Youtube, il mondo del web è diventato un caleidoscopio fatto di user generated content. Ne hanno beneficiato immediatamente i grandi motori di ricerca come Google, presto trasformati in sacerdoti dell’imperdibile su Internet. Sono loro che determinano i criteri secondo i quali l’enorme massa di navigatori si muove da un sito all’altro. E poiché si tratta di una massa instancabile e imprevedibile, sempre pronta ad assorbire nuove tendenze, il ruolo di questi motori di ricerca diventa davvero paragonabile a quello che un tempo avevano i sacerdoti.

Con il pubblico che svolge dunque il duplice ruolo di creatore e fruitore dei contenuti digitali, lo scenario si è rivoluzionato, e il modo di vivere i vari media anche. Si è determinata una frammentazione fortissima delle fonti a cui approvvigionarsi per le esigenze di informarsi e intrattenersi. Ne è conseguita una frammentazione degli utenti e dei pubblici. La rilevanza culturale assoluta dei grandi gruppi, delle televisioni e radio pubbliche, dei giornali, ha lasciato spazio, forse per sempre, all’universo segmentato dei bloggisti, alle community, alle tribù digitali più o meno numerose, che hanno imparato a selezionare per conto loro i riferimenti di realtà a cui appellarsi e i criteri di analisi e di valore con cui misurarli. Padrone dei contenuti, inevitabilmente, il pubblico, quello più giovane peraltro, sta diventando anche padrone delle proprie autarchiche regole di analisi critica, di comportamento, di estetica. E con esse cerca di colmare il vuoto di idee e di spunti formativi determinato in larga parte dal declino inesorabile dei valori che per decenni hanno tenuto insieme il tessuto sociale.

In questa grandissima agitazione sociale, in questo relativismo, finisce per trionfare il narcisismo più spinto, dal momento che più i valori sociali decadono e vengono messi in discussione in assenza di nuovi e alternativi insegnamenti da cui trarre frutto, e più si afferma il solipsismo: io mi ergo a mio valore assoluto e tutt’al più faccio riferimento alle opinioni dei miei amici o della mia piccola tribù. E’ questo che sta accadendo nel mondo dei media: io mi faccio creatore di un messaggio che voglio sia visto da qualcuno, anche da una sola altra persona, per avere la prova che esisto. In quello scambievole voyeurismo io mi esalto.

E’ la impetuosa anarchia di Internet, e le grandi aziende stanno dedicando una fetta sempre più grande dei loro budget pubblicitari a questa anarchia, perché dove c’è il narcisismo e il bisogno di conferme c’è anche lo spazio per creare le tendenze e le incentivazioni a consumare. Resta in piedi, in tutto questo, l’assenza di valori assoluti che guidino le persone, soprattutto le più giovani, verso un’autorealizzazione autentica ed ordinata.

Presto il sistema legale interverrà a soffocare anche l’anomalia libertaria di Internet. Nell’attesa, è lì che si muovono i grandi attori della finanza e dell’industria in cerca di nuovi introiti E’lì che nascono e muoiono grandi fortune. Ed è lì che transitano disordinatamente e creativamente, senza pace, decine di milioni di individui in cerca di un sollievo esistenziale che non riescono a definire.

Pubblicato su CH di dicembre 2006

Sergio Trasatti 1939 1993

di Andrea Piersanti
Sergio Trasatti era stato anche sulla Collina delle Croci in Lituania, durante il suo ultimo viaggio al seguito di Giovanni Paolo II. Un luogo che sembra una metafora della sua vita. Rasa al suolo più di una volta, la collina delle Croci è sempre stata ricostruita. Nonostante i controlli polizieschi del governo comunista che proibiva il culto religioso, i credenti della Lituania hanno riempito la collina di centinaia di migliaia di croci. Ogni volta che erano abbattute o bruciate, le croci ricomparivano subito, da un giorno all'altro. Venivano piantate di notte nel terreno brullo della collina, durante silenziose processioni religiose o dopo una santa messa celebrata sottovoce per non farsi scoprire dalle guardie. È un monumento umile, ma immenso, della forza della Fede.

Sergio Trasatti era così. Discreto ma anche determinato. Come i cocciuti cittadini della Lituania che hanno riempito di croci la loro collina, nonostante i divieti e le persecuzioni, così Trasatti ha riempito di sacrifici e di miracoli della Fede la sua vita di uomo e di professionista della comunicazione. Nonostante le difficoltà. Nonostante le incomprensioni di cui pure fu vittima.
“Alcune persone sono come le miniere – ricorda il Cardinale Angelo Comastri -: hanno spazi insospettabili e racchiudono tesori immensi nel silenzio di un geloso nascondimento. Così era Sergio Trasatti: un uomo esposto e nascosto; un uomo noto a tutti eppure riservato in tanti aspetti della sua poliedrica personalità”.

Sergio Trasatti fu caporedattore dell'Osservatore Romano. Animò e reinventò la pagina degli spettacoli del quotidiano della Santa Sede con recensioni letterarie, teatrali e cinematografiche. Attento da sempre ai fenomeni della comunicazione, aveva capito presto che l'intrattenimento forgia le coscienze più di mille telegiornali. Da maestro del giornalismo si dedicò quindi alla critica e allo studio dello spettacolo e di tutte le forme di intrattenimento. All'inizio degli anni Ottanta, le gerarchie della Conferenza Episcopale Italiana, d'intesa con la Segreteria di Stato dalla quale comunque Trasatti dipendeva, gli chiesero di prendere in mano le redini proprio dell'Ente dello Spettacolo. Si trattava di un'antica e combattiva associazione che negli anni si era distinta per una presenza non banale nel mondo del cinema e dell'intrattenimento. Alla fine degli anni Settanta, però, a seguito di un grave momento di crisi del cinema italiano, l'Ente dello Spettacolo sembrava aver perduto fisionomia. Dal dopoguerra fino agli inizi degli anni Settanta, l'associazione aveva fatto parte della Segreteria Generale della Azione Cattolica. Nei suoi saloni, al numero uno di Via della Conciliazione, erano passati tutti i grandi maestri del cinema italiano e internazionale. Poi, l'organismo era stato trasferito sotto il controllo della neonata assemblea dei vescovi italiani. La sede fu spostata sull'Aurelia, ad un passo dagli uffici della Conferenza Episcopale Italiana e a pochi metri, quasi fosse un destino già scritto, dall'abitazione di Trasatti.
Nel 1982 Trasatti entrò da Presidente neoeletto negli uffici dell'Ente dello Spettacolo. Trovò uno sparuto gruppo di impiegati (da contare sulle dita di una mano) e pochissimi soldi. Il patto con la Cei era chiaro. Trasatti doveva riuscire a trovare una giustificazione all'esistenza di questa associazione. L'alternativa sarebbe stata la fine dell'Ente dello Spettacolo, nato nel 1945. Trasatti sorrise e si rimboccò le maniche.

“Ciò che particolarmente si notava nella sua personalità era l’entusiasmo – spiega il Cardinale Camillo Ruini -. Però non era un entusiasmo fine a se stesso, ma pieno di idee e tenace nel realizzarle. Sotto il suo impulso, l’Ente dello Spettacolo subì notevoli trasformazioni. Diede vita a rassegne, convegni, premi letterari e giornalistici. Promosse anche l’istituzione di un’Agenzia di stampa per l’informazione sullo spettacolo, con scadenza settimanale, e di una relativa Banca Dati permanente, collegate anche con il servizio nazionale di Videotel. Riuscì a valorizzare la “Rivista del Cinematografo”, già esistente, sia facendone sempre meglio un punto di ritrovo per tutti gli autori e critici dello spettacolo, sia portandone la distribuzione anche nelle edicole e incrementandone gli abbonamenti. Non voglio tacere nemmeno l’attività editoriale, con la creazione della collana di libri “Immagini allo specchio”. Come Segretario della Cei, volentieri facevo visita alla sede dell’Ente una o due volte all’anno e sempre ho ricevuto la buona impressione di un’attività che si svolgeva con fervore e sincero disinteresse personale. Sergio Trasatti conosceva bene i mass media, le loro potenzialità, il loro influsso, e guardava lontano, cercando tenacemente di piegarli al servizio della buona causa, dell’educazione e dell’annuncio evangelico”.Trasatti si divideva fra il lavoro all'Osservatore Romano, l'Ente dello Spettacolo e i suoi libri (un cantiere letterario sempre pieno di nuovi progetti). Nel frattempo trovava il tempo anche per collaborare ad alcune pubblicazioni scientifiche, organizzare e partecipare a convegni e, soprattutto, continuare a seguire Papa Giovanni Paolo II in giro per tutto il mondo. Aveva la testa piena di idee. Era innamorato della sua famiglia: la moglie Sisi, insegnante di musica, e la figlia Sabrina, aspirante architetto. Nutriva un'ammirazione incondizionata per il Papa che la sorte gli aveva dato la possibilità di seguire così da vicino.

“Lavorava sodo Trasatti – racconta Gianfranco Grieco dell’Osservatore Romano -. Ricordo un particolare. Nel “pre – viaggio” del Papa nelle Filippine – Guam – Giappone si faceva a turno alla sera, prima di andare a dormire, nell’uso dell’unica macchina da scrivere portata con noi. Quando siamo ritornati a Fiumicino, appena scesi dall’aereo, abbiamo consegnato all’autista che ci era venuto a prelevare, tutti gli articoli già scritti per il Tabloid”.
Furono dedicati proprio al Papa polacco molti dei libri di Trasatti. Anche nel 1981 quando, quasi di getto, scrisse "Viaggio nella sofferenza" sull'attentato compiuto da Ali Agca a Piazza San Pietro, un'opera che fu tradotta in tutto il mondo.

“Abbiamo percorso insieme quasi venti anni, nella buona e nella cattiva sorte – scrisse Mons. Virgilio Levi, che era stato Vicedirettore dell’Osservatore Romano -. Capire Trasatti non era facile. Aveva la pazienza di un asino, ma anche le impuntature di un mulo. E, per chi non aveva letto bene il Vecchio Testamento, le due cose apparivano contraddittorie. Aveva un aspetto bonario, un tratto conciliante, un’arrendevolezza quasi inspiegabile, poi all’improvviso diventava duro, quasi intollerante. Non avevamo ancora capito che aveva dentro di sé un fuoco che non lo abbandonava mai. Sergio aveva lo sguardo lungo. Mi dicono che fu tra i primi a Roma a dotarsi di un telefax. “A che serve?” gli dicevano. E lui: “Aspettate e vedrete”. Dal telefax alla banca dati, fu in tutto un pioniere. Ma l’hard o il soft, di cui come pochi intravedeva il determinante futuro, non erano che i mezzi per lanciare un messaggio, quello cristiano, nella sua genuinità. Si deve assolutamente ritenere straordinario il suo servizio alla Fede nel mondo dei media. Tutti sanno come in questo campo la rassegnazione sia dominante (Che fare? Il mezzo è più forte di noi!). Trasatti non l’ha mai pensata così. Vedeva in questo campo un terreno da evangelizzare senza titubanze. Il suo fuoco interiore gli aveva insegnato anche l’insolita pazienza dei veri realizzatori: saper attendere senza mai demordere”.

Trasatti scrisse molto anche di cinema. A cominciare da Rossellini, che aveva avuto la possibilità di conoscere personalmente. “Non è vero che il neorealismo fu osteggiato dalla cultura cattolica italiana”, ripeteva Trasatti fino a sgolarsi. Sorprendentemente ebbe un significativo riconoscimento anche dal mondo politico più lontano dai suoi ideali. Dopo la sua morte, la sua biografia del grande regista svedese Ingmar Bergman (Castoro cinema) fu distribuita in edicola dal quotidiano "L'Unità".

Il laico Fernaldo Di Giammatteo, direttore della collana del Castoro, rimase impressionato dall’incontro con Trasatti. “Lavorare con lui è stato bello e difficilissimo – spiegò allora Di Giammatteo agli amici -. Il mio ruolo di direttore era stato annullato dalla sua professionalità. Quando mi mandò le prime bozze della biografia di Bergman, io iniziai a leggere con la penna rossa in mano, per tagliare le lungaggini e correggere gli errori. Alla fine della lettura i fogli erano ancora immacolati e la penna era rimasta inutilizzata. La sua era una scrittura pulita ed essenziale, difficile da tagliare (quando i problemi di spazio lo imponevano) perché ti sembrava di deturpare un lavoro praticamente perfetto”.

Il suo ultimo libro, che venne presentato al pubblico dopo la sua morte, fu "La Croce e la stella", pubblicato da Mondadori nel 1993. Trasatti era stato il primo a ricostruire, dall'interno del Vaticano, la storia diplomatica segreta dei rapporti e degli scontri tra i Papi (da Benedetto XV a Giovanni Paolo II) e i capi del Cremlino e i loro vassalli dell'Est. Uno scontro, quello fra Roma e Mosca, che si era concluso con la sconfitta clamorosa dell'ideologia comunista.

Uno scontro che aveva affascinato la coscienza di cattolico di Trasatti. Nel 1989, come regalo di Natale ad amici e conoscenti, spedì un disco con alcune esecuzioni del violoncellista Mstislav Rostropovic. Aveva voluto personalizzare la copertina del disco e aveva fatto impaginare una foto comprata dalle agenzie americane dove si vedeva lo stesso Rostropovic intento a suonare davanti alle rovine del Muro di Berlino. Una foto scattata proprio nel 1989, durante il concerto tenuto dal musicista per celebrare la morte del comunismo. Un'esibizione divenuta leggendaria.
“Quel che mi è più rimasto nella memoria di Sergio Trasatti – racconta Maurizio Costanzo – è la passione con la quale svolgeva il suo lavoro. Non un entusiasmo rivolto e in qualche modo limitato alle cose di maggior prestigio, bensì al giorno dopo giorno, agli interventi o ai solleciti, alle beghe organizzative. In questo era totalmente un operatore nel settore della comunicazione. La sua passione era al servizio di alcuni valori forti ma il suo rispetto per le idee divergenti era assoluto. Ho un cruccio, nel ricordarne la scomparsa: non aver fatto in tempo ad invitarlo ad una puntata del mio programma televisivo per presentare l’ultimo libro che aveva scritto. Mi dispiace: so che gli avrebbe fatto piacere, come lo avrebbe fatto a me. La vita è fatta anche, purtroppo, di appuntamenti mancati”.

Gli amici lo definivano un "vulcano di idee". Trasatti ti chiamava all'improvviso per dirti: "Senti cosa ho pensato". Alla fine ti guardava, con gli occhi che brillavano, e ti domandava: "Bello, no?".
Io l'ho conosciuto nel 1984. Mi mise alla prova. Mi diede una possibilità. Con affetto e anche con severità. Entrai all'Ente dello Spettacolo come aiuto ufficio stampa. Ero un giovanotto ambizioso e ignorante. Avevo solo due vantaggi: l'età e la guida di Trasatti. Adesso, a distanza di tanto tempo, mi è rimasto solo il suo insegnamento che ancora oggi mi aiuta e mi suggerisce le soluzioni più adeguate.

L'avventura di Trasatti all'Ente dello Spettacolo fu entusiasmante. Nel giro di poco tempo l'associazione diede lavoro ad una ventina di persone e ad un numero imprecisato e sempre variabile di collaboratori esterni. Furono anni febbrili e interessanti. L'Ente dello Spettacolo brillava per la sua diversità. Mentre il paese inconsapevolmente stava infilando la testa nel sacco buio di Tangentopoli e in giro si respirava un'aria pesante, negli uffici di Via Palombini il gruppo di lavoro guidato da Trasatti lavorava con un sorriso sulle labbra. Una specie di oasi, nella burrasca generale.

Trasatti inventò quattro manifestazioni che divennero subito oggetto di programmazione televisiva su Raiuno. Erano il "Premio La Navicella" (per i professionisti dello spettacolo distintisi per una particolare attenzione ai valori umani e spirituali), il "Premio Colonna Sonora" (il primo riconoscimento del genere in Italia), il "Premio Diego Fabbri" (ancora oggi l'unico premio per libri di cinema, televisione, teatro e comunicazione) e il "Premio della Critica Radiotelevisiva" (fondato dal critico tv Mino Doletti, che con Trasatti crebbe fino a diventare un momento annuale di riflessione sulla qualità più autentica della programmazione televisiva e radiofonica). Furono manifestazioni che fecero il giro del paese e che raccolsero grandi rassegne di ritagli stampa. Furono anche momenti di relazioni non occasionali con molti protagonisti dello spettacolo e della comunicazione.

Trasatti era membro della stampa parlamentare e in quegli anni, come cattolico, fu un punto di riferimento prezioso per i protagonisti della politica, della cultura e della comunicazione. Un anno dopo la sua morte, un convegno che doveva essere presieduto da Trasatti, fu coordinato da Giovanni Spadolini, allora presidente del Senato. Un segno di rispetto postumo e una dimostrazione della considerazione e della stima che era riuscito a raccogliere nella sua vita.
Con non poche difficoltà e attirandosi gli strali di alcuni avversari, Trasatti fondò anche una scuola di giornalismo, intitolata ad un grande amico scomparso, Dante Alimenti, il primo vero vaticanista del TG1 della Rai.

“Con la sua scuola di giornalismo – ricorda Vittorio Roidi -, che organizzava e guidava con notevoli sacrifici personali, Sergio ha dato un esempio di dedizione ai ragazzi e, insieme, alla professione. Nella nostra società si fa un gran parlare delle giovani generazioni, ma non sono molti coloro che per esse poi lavorano in concreto e senza nulla chiedere in cambio. Trasatti ci si è dedicato spontaneamente. Ha fatto nascere in tanti ragazzi la passione per il mondo delle notizie e, contemporaneamente, ha messo il dito sulla sua delicatezza: l’esigenza dell’etica, la necessità di avere informatori rigorosi, l’amore per un giornalismo che fosse anzitutto ricerca della verità”.

I suoi ragazzi, i suoi primi alunni, sono oggi ben collocati nel giornalismo italiano e internazionale e, molto probabilmente, non hanno scordato quelle lezioni e il suo attaccamento alla verità della vita. “Ricordo – dice Pier Ferdinando Casini – l’impegno costante e appassionato per la diffusione della cultura e per la difesa dei suoi valori profondi in un momento in cui si voleva far credere che la cultura fosse appannaggio esclusivo dell’intellighenzia di sinistra; seppe farlo senza esibizionismo inutile, ma sempre con grande Fede, con coerenza e sostanza. Trasatti aveva capito meglio di altri che i mezzi di comunicazione, come giornali, radio, televisione e cinema, se usati in maniera corretta, sono strumenti importantissimi per la crescita morale e sociale di un paese. Forte di questa convinzione, ha dedicato grandi energie alla formazione di giornalisti capaci di svolgere il loro lavoro senza condizionamenti e senza preconcetti, in piena libertà. A lui, in momenti di grave crisi occupazionale, molti giovani devono oltre al prezioso insegnamento anche un aiuto concreto e generoso”.

Gli anni passati all'Ente dello Spettacolo furono anche quelli delle clamorose proteste contro gli eccessi della televisione e della comunicazione in genere. Trasatti era come un moderno crociato che partiva lancia in resta contro comici e giornalisti che dimostravano poco rispetto per il pubblico e, soprattutto, per il mistero della Fede.
“Migliaia di interventi critici, di servizi d’attualità e di costume, di note morali: è la testimonianza di una grande ricchezza umana, culturale e civile – dice Sergio Zavoli -. Trasatti sapeva agire da sé e con altri, immergendosi nella sua creatività e suscitando quella altrui; aveva molto vivo il senso del partecipare, dell’associarsi, del condividere. Fu attento al mondo dello spettacolo, in specie televisivo, cui ha lasciato un’impronta non cancellabile, soprattutto di valore etico; senza essere, però, quel che si dice un moralista, né un pedagogo, men che meno un bigotto; era uno spirito laico, nutrito sì dalla Fede, ma anche dalla sua cultura e dal suo temperamento”.

Trasatti amava la vita ed il sorriso. Il suo ottimismo razionale lo portava ad interessarsi del futuro in tutte le sue forme. Era un entusiasta sostenitore del progresso tecnologico. Quando nacque la paytv in Italia, fu in prima fila per difenderla e organizzò addirittura un convegno internazionale per dimostrare la bontà dell'iniziativa. Fu fra i primi ad utilizzare i personal computer e lanciò un'iniziativa spettacolare e, in qualche modo, storica: la prima banca dati elettronica del cinema mondiale. Pochi mesi prima di morire aveva già cominciato a studiare il fenomeno di Internet che in Italia sarebbe arrivato solo due anni più tardi.

Un infarto lo uccise nel tardo pomeriggio del 16 dicembre del 1993. Era stato ad un incontro con gli amati studenti della sua scuola di giornalismo. Era tornato sotto casa per prendere la moglie e andare insieme con lei ad una prima al teatro dell'Opera, la sua grande passione. Dopo aver citofonato, si era seduto di nuovo in macchina. Così lo prese l'infarto, al posto di guida, dove era sempre stato. Si accasciò sul volante e il clacson cominciò ad ululare.

Il suo funerale fu celebrato dal Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, l'Arcivescovo americano John P. Foley. Durante la messa tanti avevano gli occhi umidi, alcuni singhiozzavano apertamente. Rimane nelle orecchie di chi lo ha conosciuto quel clacson che suona, che suona e che sembra non dover smettere mai, nel pomeriggio caotico e distratto di una grande città.
Pubblicato su I quaderni di Desk n.10