martedì 3 ottobre 2006

Volevo essere Cinecittà


di Andrea Piersanti
Volevo essere Cinecittà. E lo sono stato, per tre anni, come presidente dell’Istituto Luce dal 2003 al 2006. Fui nominato da Giuliano Urbani e arrivai sulla Tuscolana pieno di quell’irruenza che è facile scambiare per arroganza. Volevo essere Cinecittà e il sogno, per un momento, si realizzò.
I tre anni passarono in un lampo, fra entusiasmi quasi infantili e delusioni cocenti. Le cose più belle vennero quasi sempre dalla stessa Cinecittà. Quelle più brutte invece sempre dalla politica.
Proprio in queste ore il ministro Rutelli nomina i nuovi vertici delle società del cinema pubblico (Cinecittà Holding, Luce e le altre). Viene naturale così ripensare a quando, tre anni fa, invece c’eravamo noi. Insieme con Livolsi, Avati, Sovena, Piazzi e tutti gli altri volevamo veramente cambiare le cose.
Quando varcammo i cancelli di Cinecittà fummo accolti invece con la diffidenza scanzonata che è tipica dei romani. Insieme con le battute e qualche risata di scherno, scoprimmo però anche un’azienda innamorata di sé stessa e seriamente consapevole del proprio ruolo. Trovammo dipendenti e dirigenti preparati e appassionati che, ancora oggi, sono la vera e unica ricchezza di quell’azienda.
Volevo essere Cinecittà e, dopo la gioia dei primi tempi e l’entusiasmo per le tante cose che si potevano fare, arrivò anche il momento meno divertente. La politica si affacciò con tutto il suo carico di grezza incompetenza. Avati per primo lasciò la poltrona di Presidente di Cinecittà avendo capito, prima di noi, che le cose sarebbero andate in un modo diverso. Noi però chinammo il capo e continuammo a lavorare. Ma la politica era sempre lì, dietro l’angolo, pronta ad azzannare alle caviglie i nostri sogni e i nostri progetti.
Fu doloroso alla fine dover lasciare tutto. Ce ne andammo alla spicciolata, cacciati dalla stessa politica che ci aveva nominato. Con sentimenti di amarezza e di rimpianto per gli errori fatti ma anche con una gioia intima e segreta per le cose belle che invece, nonostante tutto, eravamo riusciti a realizzare.
Avemmo infatti anche la nostra piccola “buonuscita”. La scovammo nello sguardo clandestino di qualche collaboratore, in alcune telefonate ricevute prima di andare via, negli sms e nelle mille email. Cinecittà ci salutò facendoci intendere che forse non tutto il nostro tempo lì era andato perduto. Adesso è ancora la politica a far sentire la propria voce.
I nuovi vertici del cinema pubblico arriveranno sulla Tuscolana con un’irruenza che sarà scambiata per arroganza. Avranno sogni e progetti e, come noi e come gli altri prima di noi, saranno accolti con quella diffidenza scanzonata e un po’ volgare che è tipica dei romani. In modo particolare di quei romani di Cinecittà che sono sopravvissuti all’invasione di Hollywood, che hanno lavorato con Fellini e che oggi, con un sorriso pieno di antica e svogliata saggezza, sono ancora lì ad accogliere i nuovi arrivati.
Volevo essere Cinecittà e, per un attimo, lo sono stato. Un regalo meraviglioso. Mentre riprendo con fatica la vita normale che si svolge fuori da quelle mura, mi viene in mente l’unico augurio che posso fare alle tante persone con le quali ho lavorato in quei tre anni. Eccolo: auguro agli allegri romanacci di Cinecittà che anche i nuovi presidenti e i nuovi amministratori delegati, nel momento di varcare i cancelli delle Tuscolana, abbiano dentro quella musica del cuore di chi “voleva essere Cinecittà”. E che, magari solo per un attimo, ci è riuscit0.