domenica 14 settembre 2008

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domenica 7 settembre 2008

Solzenicyn, vivere senza menzogna


di Adriano dell'Asta

«Il disturbatore di Zurigo», così qualcuno aveva definito Solženicyn nel 1974, subito dopo la sua espulsione dall’Unione Sovietica, quando il grande scrittore si era momentaneamente stabilito in Svizzera, ed era ormai evidente che non sarebbe stato possibile farne un semplice strumento di lotta politica o, come si diceva allora, della guerra fredda. Solženicyn restava un critico inesorabile del comunismo, ma non era meno critico di un Occidente sempre più pago del proprio benessere e sempre più disperato: in una sorta di paradossale par condicio, che però non era affatto una banale equidistanza, denunciava le parentele inaspettate tra il «bazar del partito» e la «fiera del commercio»; e quindi disturbava. «Il disturbatore di Zurigo»; quella definizione aveva una sua logica inoppugnabile: Solženicyn disturbava i piani di una politica che per spartirsi il dominio del mondo era disposta a transigere su questioni come quella dei diritti umani o della libertà. Ma soprattutto disturbava e sconcertava in un periodo in cui si diceva che «tutto è politica», in un periodo in cui non si riusciva a concepire un’affermazione dell’uomo che non passasse attraverso una sanzione ideologica: si pensava (allora, ma qualcuno continua a pensarlo anche oggi) che, se l’ideologia comunista aveva distrutto il vecchio uomo, l’unica possibilità di ricostruirne il volto fosse quella di trovare un’ideologia più ricca, che magari aggiungesse alle giuste rivendicazioni sociali del marxismo un altrettanto giusto spazio per la dimensione spirituale dell’uomo. Si pensava, in fondo, che l’ideologia era buona e che era stata soltanto applicata male o che, al massimo, fosse degna soltanto di qualche correzione più o meno radicale; e si pensava che questo fosse il massimo della genialità dell’Occidente, capace persino di correggere e di portare finalmente a compimento l’ideale e il sogno più bello che l’uomo avesse saputo concepire, quello di una società perfetta. L’unico problema era che Solženicyn usciva da questo sogno e ne mostrava i tratti da incubo. L’incubo col quale disturbava la quieta coscienza occidentale era quello del principio ideologico in quanto tale; la sua non era un’equidistanza perché il suo non era un discorso politico con la rivelazione di una nuova ideologia: «Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta di trovarvi una rivelazione politica. Se fosse così semplice! se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno», dice Solženicyn nell’Arcipalgo Gulag,la sua opera apparentemente più politica. Ma il punto è che il male non era in questa o in quella ideologia, nell’ideologia dei neri o dei rossi contrapposta a quella dei bianchi, nell’ideologia del diavolo contrapposta a quella del santo; il male era nell’ideologia in quanto tale, era che si potesse pensare che c’era un’idea in nome della quale si era autorizzati a eliminare qualche uomo. Il male era che ci fosse una teoria, sociale, razziale, religiosa (ciascuno può aggiungere l’aggettivo che crede) che pretende di giustificare il male che si compie in nome della futura società perfetta e in questo modo dà «la duratura fermezza occorrente al malvagio». Il male era ed è che ci sia un’ideologia che, mentre facciamo il male, permette di «giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi». Quella di Solženicyn non era un’equidistanza, perché il grande scrittore sapeva ovviamente distinguere tra le responsabilità di chi aveva ucciso milioni di uomini e quelle di un Occidente che aveva chiuso gli occhi di fronte a queste tragedie, sperando di poter emendare i malvagi; ma proprio perché sapeva questo (e, sapendolo, si rivolgeva all’Occidente per invitarlo a destarsi dal suo torpore e a combattere l’ideologia) Solženicyn disturbava ancora di più, perché usciva da questa dialettica da padroni del mondo e denunciava, per usare l’espressione di un altro grande russo, che «l’ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo»: magari, come per l’Occidente, un nichilismo delicato e ancora sensibile alle complessità della vita, ma non per questo meno condannato a soccombere di fronte al nichilismo scatenato delle ideologie totalitarie. Per far fronte al totalitarismo occorreva uscire da questa dialettica del primato dell’idea e ritrovare il principio di realtà, ritrovare la verità del reale e nel reale, non come qualcosa che l’uomo deve immettervi a forza, facendo violenza a ciò che esiste, ma come qualcosa che è dentro il reale: non fatto da mano d’uomo. E Solženicyn è uscito da questa dialettica non attraverso un nuovo discorso, ma proprio riscoprendo la realtà non fatta da mano d’uomo: tali sono i suoi personaggi artistici. La sua è stata un’uscita ancora più decisa e netta dalla dialettica delle ideologie proprio perché realizzata attraverso la forma artistica, le immagini, le figure, le forme architettoniche date ai suoi romanzi, dove quello che cattura sono questi esseri che si trovano vincitori esattamente nel momento della sconfitta o della fine di tutte le loro forze umane; valga per tutti l’esempio di Matriona, la stupida vecchia che dopo la morte viene scoperta essere in realtà «il Giusto, senza il quale non vive il villaggio, né la città, né tutta la terra nostra». È questa sfida, di un uomo che vince ogni potere perché non fatto da mano d’uomo, che Solženicyn ci ha lasciato attraverso le sue opere letterarie, cioè, non attraverso un discorso teorico, ma attraverso la bellezza, che è la verità del reale, lo splendore del vero.

“Non muoio neanche se mi ammazzano”


Alla Mostra del Cinema di Venezia hanno proiettato "La rabbia" di Pasolini e Guareschi ma, per far posto a frammenti inediti di Pasolini, hanno tagliato le scene firmate da Guareschi. E' successo il finimondo: sono volati gli stracci e le polemiche hanno inondato i giornali. Solo pochi giorni prima, al Meeting di Rimini, centinaia di migliaia di persone avevano fatto la fila per vedere la mostra che il popolo di Cielle ha voluto dedicare a Guareschi, in occasione del centenario della sua nascita. Il titolo? "Non muoio neanche se mi ammazzano". Di seguito vi propongo il testo di presentazione della mostra. (a.p.)

Dal catologo del Meeting di Rimini


Cento anni fa, nella Bassa Parmense, il I maggio del 1908, nasceva Giovannino Guareschi, l’inventore del Mondo Piccolo di don Camillo e Peppone.
Con una periodicità pressoché stagionale, le televisioni pubbliche e private ripropongono da anni i film del ciclo di Don Camillo, liberamente (forse anche troppo) ispirati ai racconti di Giovannino Guareschi. Il favore presso il pubblico, o -se si preferisce- l'audience, è sempre di grado elevato, e ciò ha consentito da una parte il perpetuarsi della popolarità delle "maschere" di Don Camillo e Peppone a più generazioni, ma non sempre ha reso pienamente merito al loro creatore, autore italiano tra i più letti e conosciuti anche fuori dal nostro Paese.
Il doppio anniversario di Guareschi, della nascita e della morte, che avvenne a Cervia quarant’anni fa, nel luglio del 1968, può e deve essere l’occasione per riscoprire Guareschi, e con lui il suo mondo letterario, un universo capace di mostrare agli uomini quanto siano belli e quanto grande sia il loro destino: basta solo che abbiano l’umiltà di aprire la loro anima al soffio eterno del Creatore. Quel soffio che corre lungo il Grande Fiume e pulisce l’aria per riempirla di invenzioni impastate di terra e di cielo come raramente capita di trovarne nella letteratura contemporanea.
La Mostra vuole guidare alla scoperta di questo scrittore, attraverso la sua vita e la sua opera, dalla quale traspare una religiosità profonda, che affonda le radici nella tragica esperienza della Seconda Guerra Mondiale, dall’internamento in un lager nazista cui fu sottoposto insieme a tutti quegli ufficiali italiani che, come lui, avevano rifiutato di servire la Repubblica Sociale di Mussolini.
In questo senso è significativa la testimonianza di don Onorio Canepa, sacerdote genovese, che ebbe a dire di Giovannino: "Fu mio compagno di prigionia nei lager nazisti. In quei giorni sventurati seppe fare più lui da solo per dieci, ventimila e più internati, che tutti noi sessantaquattro cappellani messi insieme..." Davanti all'angoscia di chi vedeva il mondo cadergli addosso, di chi lamentava che tutto era finito, morto, Guareschi affermava: no, non tutto. Dio non è morto. Lontano sia dal pessimismo cupo che dall'ottimismo stolido, la sua posizione era quella del realismo cristiano, conscio del dramma che scaturisce dalla presenza del male e del peccato nel mondo, ma certo della speranza che Cristo ha vinto, che non è morto, poiché è risorto. Con una semplicità assolutamente priva di retorica, che gli faceva scrivere, sul settimanale Candido di cui era direttore negli anni '50: "No, non termino dicendo:Dio è con me. Concludo esprimendo l'ardente speranza di essere io con Dio!"
Senza Gesù Cristo non si va nessuna parte: questo è il Vangelo dei semplici, il Vangelo di don Camillo.
Guareschi è certamente un grande scrittore, e nonostante la peculiarità dell'ambientazione delle sue storie, ricche degli umori e dei sapori della sua terra, è scrittore di respiro europeo, apprezzato e compreso come pochissimi altri nostri autori
C'è un ulteriore Guareschi, infine, da riscoprire: è lo scrittore che -forse più di ogni altro- ha rivolto la propria attenzione alla famiglia, tanto che si può parlare di Giovannino sia come di uno scrittore per la famiglia, ma anche di scrittore della famiglia: In tutta la sua opera c'è grande attenzione, rispetto, amore, per il rapporto tra genitori e figli, tra uomo e donna innamorati, persino tra nonni e nipoti. La casa, la terra, l'amore per la propria storia, il ricordo dei propri morti e la speranza per i propri figli sono la spina dorsale di una civiltà che Guareschi amava, cui apparteneva, che ci ha descritto con realismo e con tenerezza, e che suscita nei lettori il desiderio di preservarne il senso.

Si può vivere così: da protagonisti



In un’epoca in cui sembra che nulla possa interessare, il Meeting ha mostrato che la gente non parte da discorsi o da idee astratte, ma è colpita da una presenza.

In questo senso il messaggio del Santo Padre è stato il segno di una presenza familiare al popolo del Meeting e ha indicato l’ipotesi di lavoro che ha segnato tutta la settimana: «Il Meeting vuole ribadire che solo Cristo può svelare all’uomo la sua vera dignità e comunicargli l’autentico senso della sua esistenza… Ecco dunque il protagonismo… ci vuole suoi collaboratori per la realizzazione del suo Regno».

Gli incontri del ciclo “Si può vivere così” hanno offerto la testimonianza di persone appassionate alla propria umanità, che nell’incontro cristiano hanno trovato la risposta al bisogno infinito del loro cuore e sono diventate perciò protagoniste: Vicky e Rose tra i malati di AIDS di Kampala, Cleuza e Marcos Zerbini tra i senza terra di San Paolo, padre Aldo Trento ad Asunción, Rosetta Brambilla a Belo Horizonte, suor Elvira e Margherite Barankitse, sono rimasti nella testa e nel cuore della gente, perché testimoniavano una chiarezza di sguardo sulla vita fino al riconoscimento di Cristo come una presenza reale. Il loro dire di sì al Mistero li ha resi protagonisti e questo è all’origine anche del cambiamento sociale che le loro storie hanno documentato. Così la mostra sulle carceri è stata una continua possibilità di incontrare la stessa novità nella presenza fisica dei carcerati che facevano da guida, mostrando un’altrimenti impossibile libertà. Allo stesso modo, nella testimonianza di Eugenio Borgna e Giancarlo Cesana un tema esistenziale come la solitudine è stato affrontato non come questione psicologica, ma come strada alla scoperta dell’originale dipendenza di ogni uomo che apre all’incontro con Qualcuno a cui poter credere. Come anche l'intervento di Marco Bersanelli ha documentato e testimoniato.

Gli interventi di personalità della Chiesa, dal cardinale Bagnasco al cardinale Tauran a monsignor Mamberti, fino ai vescovi Pezzi, Fisichella, Negri, Hinder (vicario apostolico d’Arabia Saudita) ha reso evidente che l’apertura verso l’altro nasce dalla coscienza della propria identità e che la fede cattolica mette nelle condizioni ottimali per incontrare chiunque sulla base della comune esperienza elementare, come è accaduto con gli anglicani Hauerwas e Milbank, con gli ortodossi Mescrinov e Polujanov, col buddista Habukawa e con l’ebreo Weiler.

In un momento in cui la situazione internazionale è confusa e carica di tensioni, il Meeting, fedele alla sua storia, è stato il luogo di un dialogo per la pace, i diritti dell’uomo e la convivenza tra i popoli, con personalità internazionali come l’ambasciatore USA Mary Ann Glendon, il segretario della Lega araba Moussa, gli economisti Krueger e Attali.

Quanto alla politica, particolarmente quest’anno in primo piano sono stati i temi - quali federalismo, welfare, sussidiarietà, istruzione – e non il gossip o le schermarglie fra avversari. Più d’uno fra i politici e imprenditori presenti a Rimini si sono sorpresi nel riconoscere che il Meeting reale è cosa del tutto diversa e ben più interessante rispetto a quello troppo spesso rappresentato nei media.

Al Meeting si è rinnovato l’incontro con intellettuali e scrittori che hanno documentato che la cultura non è un fenomeno da accademia, ma nasce all’interno di una appartenenza e si documenta come coscienza critica e sistematica di un’esperienza. Questo hanno testimoniato Aaharon Appelfeld, Michael O’Brien, John Waters e Gianpaolo Pansa, Javier Prades, Enzo Bettiza e Ivanovna Ljudmila Saraskina. Così lo spettacolo inaugurale ha riproposto i Cori da “la Rocca”, capolavoro di T.S. Eliot, con quel drammatico interrogativo - «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità cha ha abbandonato la Chiesa?» -, a cui la settimana del Meeting ha cercato di rispondere positivamente con la realtà di 4.000 volontari e di oltre 700.000 presenze, che hanno mostrato la realtà di un popolo per il quale la fede è l’esperienza di una soddisfazione perché corrisponde al bisogno che ogni uomo è, ed è l’inizio di un percorso della conoscenza che fa entrare ogni volta di più nella realtà da protagonisti.

Perciò, dopo il Meeting del desiderio e della libertà, dopo quello della ragione e quello della verità, il titolo del Meeting 2009 - che si svolgerà a Rimini dal 23 al 29 agosto - è: «La conoscenza è sempre un avvenimento».