venerdì 24 dicembre 2010

Mina - Silent night

lunedì 20 dicembre 2010

Cut the director

Director’s cut, ovvero Cut The Director, uccidi il direttore. Finita la prima stagione politica di Muller a Venezia e della De Tassis a Roma, è partita la corsa per il nuovo vertice dei due festival cinematografici più importanti d’Italia. Uno stipendiuccio malcontato di circa 100 mila Euro l’anno più viaggi e benefit e una visibilità da rock star. Chi vincerà? Ecco i candidati, salvo sorprese.

Marco Muller, il numero uno per succedere a sé stesso a Venezia o per andare a dirigere invece il festival di Roma. È molto corteggiato per un super incarico di coordinamento cinematografico della capitale (in chiave anti De Tassis) ma lui si schernisce dicendo che vuole tornare a fare il produttore. Anche se non ha esitato a sollecitare e animare incontri con i maggiorenti capitolini mentre impazzava il festival romano.

Piera De Tassis, la numero uno per succedere a sé stessa a Roma o per andare a dirigere invece il festival di Venezia; ha amici illustri fra i registi italiani e, sul fronte delle presenze americane, ha fatto vedere più di un sorcio verde anche a Muller. Inoltre, con furbizia strumentale, ha aperto il suo tappeto rosso alla protesta del cinema italiano contro Bondi. Però è anche la direttora di Ciak, mensile di cinema della Mondadori. Il Presidente del Festival, Rondi, ne ha sempre parlato benissimo. In pubblico.

Giorgio Gosetti, un superaddetto ai lavori navigato e di vecchia scuola, conosce bene (un amore ricambiato) il cinema indipendente italiano e internazionale. Quest’anno ha scelto, per le sue Giornate degli Autori, gli unici film italiani premiati a Venezia 67, mentre infuriavano le polemiche sulle decisioni della giuria guidata da Tarantino. Anche se è in contrasto con il centrodestra fin dai tempi di Urbani, è comunque il concorrente che Muller teme di più.

Mario Sesti, autore di documentari indimenticabili su Fellini e Germi (anche se è più famoso per il suo pessimo carattere). Sembra il vincitore morale del recente Festival di Roma. Decine di articoli hanno celebrato la sua rassegna “Extra”. Di conseguenza lui ha pensato bene di litigare con gli altri colleghi della direzione artistica di Roma. Ha una tendenza per il cinema eccessivo, porno incluso. È il concorrente che la De Tassis teme di più.

Andrea Purgatori, sarà anche poco simpatico a Bondi ma, con “Tuttiacasa”, ha monopolizzato per giorni tutti i media italiani, oscurando il fascino latino di Eva Mendes, finendo da Santoro e costringendo i politici locali, Zingaretti e Croppi in testa, a rincorrerlo sul telefonino. Un talento raro che potrebbe tramutarlo nella carta segreta dei “100autori” per un candidatura di sinistra e antigovernativa.

Maria Rosa Mancuso, la piccola e tosta critica de “Il foglio”, potrebbe essere invece l’arma segreta di una candidatura dei salotti della destra liberale. Ma reagisce con fastidio se qualcuno le parla di una direzione festival. Scuote la testa e borbotta: “Troppe rogne”.

Diamara Parodi, candidatura tecnica per i numeri in crescita della sua “Business Street”. Alemanno e la Polverini, insieme con il nuovo assessore culturale del Lazio, Fabiana Santini, dicono infatti che il festival ormai ha senso solo come supporto al mercato.

Lucia Milazzotto, è meno conosciuta della Parodi ma con il suo “New Cinema Network” ospita a Roma ogni anno i migliori produttori indipendenti d’Europa. Una rete di rapporti che garantirebbe l’identità autoriale che il festival romano non ha ancora trovato.

Pascal Vicedomini, il suo nome arrotonda già le prime conversazioni informali fra alcuni dei politici che si stanno cominciando ad occupare delle nomine e che, negli anni scorsi, sono stati suoi ospiti (molto, forse troppo, coccolati) alla manifestazione “Capri ad Hollywood”.

Luciano Sovena, preferisce fare il produttore ma, vista la mala parata dei finanziamenti pubblici a Cinecittà, pensa da tempo di cambiare casacca e, forte dell’esempio di Muller che non ha mai veramente interrotto la propria attività, comincia a guardare alla guida di Venezia come ad una soluzione.

lunedì 13 dicembre 2010

Il cinema non è un mestiere per vecchi

Difficile scrivere una cosa così ma è necessario guardare in faccia la realtà. Il cinema non è un mestiere per vecchi. Viviamo in un momento di trasformazioni che sembrano solo tecnologiche ma che invece sono anche culturali e che quindi hanno conseguenze di tipo sociologico. “360°”, la nuova parola d’ordine di produttori e autori per contenuti rigorosamente crossmediali e multipiattaforma, impone di muovere la testa in modo acrobatico ed elastico. Un’attitudine difficile per coloro che hanno problemi di cervicale e di artrosi. La generazione dei padri e dei nonni deve fare un passo indietro. Come disse una volta un caro amico, padre di molti figli: «Il nostro primo dovere è di togliere le mani. Di lasciare che le cose accadano». E la prima delle “cose” che devono accadere è proprio il ricambio generazionale. Non se la prendano amici e colleghi che lavorano nel mondo del cinema ma è ora di alzarsi da tavola. Nelle proteste che si levano periodicamente per i tagli ai finanziamenti pubblici al cinema, c’è un dato che fa sempre una certa impressione: l’età dei registi che firmano le petizioni o gli editoriali sui quotidiani. Difficile trovarne uno che abbia meno di sessant’anni. I vecchi sono conservativi per istinto. La vita corre via e ogni mattina ti guardi allo specchio e speri che il tempo si fermi. Per i giovani, invece, le cose devono succedere. Hanno fretta di crescere e di sperimentare. Soprattutto hanno voglia di cambiare. I vecchi parlano di morte del cinema. Dicono che il linguaggio è cambiato e che il cinema non esiste più. Un odioso desiderio di portarsi l’arte nella tomba. Sto leggendo le bozze del romanzo di un ventinovenne aspirante filmaker, Paolo Boriani. Ogni capitolo è dedicato a un film. Le immagini evocate si intersecano in modo inestricabile alla quotidianità di tipo autobiografico di questo giovane milanese fra genitori, musica, amici, mostre di design e performance di nuovi artisti. Interessante. Magnetico. I giovani fanno così: si avvicinano al cinema con lo stupore della “prima volta”. Si mettono in fila davanti alle sale e discutono di come fare il cinema del prossimo secolo. Fra poco inizieranno le battaglie per il rinnovo delle cariche sociali ai vertici dei principali festival italiani, Roma e Venezia, e, subito dopo, di Cinecittà. Si tratterà di vere e proprie lotte senza esclusioni di colpi. Il tema vero però rimarrà sullo sfondo. I contendenti infatti viaggiano allegramente verso i sessanta, i settanta e, qualcuno, anche verso gli ottanta. Ad una conferenza stampa per happy few a Venezia, uno degli sponsor aveva pensato bene di regalare una confezione di pomata antiage. Contro le zampe di gallina e le occhiaie. Come dargli torto. In una sala cinematografica per un’anteprima riservata ai giornalisti, mentre i ragazzini e le ragazzine dei magazine online e i giovani parvenu della critica cinematografica vociavano allegramente di un regista o di un film, uno dei vecchi soloni del cinema è sbottato: «Ma chi si credono di essere questi sbarbatelli!». Non credono di essere, verrebbe voglia di rispondere, ma essi sono, sono veramente il futuro del cinema. Al recente Mipcom di Cannes c’era uno che di cinema se ne intende, Jon Feltheimer, il capo indiscusso del successo di Lionsgate (centinaia di milioni di spettatori ovunque, dieci Oscar negli ultimi dieci anni e serie tv di successo planetario come Mad Men). «La mia visione per il futuro di cinema e tv ha una sola parola d’ordine» - ha detto a mille addetti ai lavori provenienti da tutto il mondo -: «Il futuro è cambiare». Cambiare. Il cinema di oggi non è un mestiere per vecchi. Ma forse non lo è mai stato. Chi si ricorda quanti anni aveva Fellini quando vinse la Palma d’Oro con La dolce vita e quanti anni aveva Rossellini quando girò Roma città aperta? Avevano entrambi solo 40 anni (e allora sembravano già molti). Citizen Kane, il più bel film della storia del cinema, venne girato da Orson Welles quando questi aveva 25 anni.


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martedì 26 ottobre 2010

Tornatore, l'ultimo Gattopardo e la Mostra del buco

A Venezia 67 si è parlato anche del rapporto che Mr. Titanus, al secolo Goffredo Lombardo, ebbe con la Chiesa. Uno strano festival quello di quest’anno. Il presidente della Biennale l’ha definita la Mostra del “Buco”.
L’ultimo Gattopardo 
Gustavo Lombardo fu il pioniere del sistema cinematografico italiano. A soli 19 anni, nel 1904, costituì la sua prima società di noleggio. Sposò l’attrice italiana più bella del periodo del muto, Leda Gys e, nel 1928, fondò la Titanus, la società di produzione e distribuzione destinata a segnare tutta la storia del cinema italiano. Il figlio, Goffredo Lombardo, non voleva fare il cinema, racconta il premio Oscar Giuseppe Tornatore nel documentario L’ultimo gattopardo, prodotto da Medusa e presentato in anteprima a Venezia. Però, alla fine, ne rimase coinvolto e divenne il produttore cinematografico più importante della storia del cinema italiano del dopoguerra. Amante della vita e della pesca sportiva in mare aperto, una volta rischiò addirittura di essere ucciso da uno squalo. Ebbe due figli dall’amata moglie Carla. Il più giovane, Giulio, morì proprio in mare, durante un’immersione. Il documentario che Tornatore gli ha dedicato è molto bello. Le interviste alle persone che hanno lavorato con Goffredo Lombardo sono montate in una successione rapida e alternata, fino a costruire una storia unica e polifonica. Fra le voci, la più commovente è quella di Cesarina, la fedele segretaria, molto applaudita a Venezia. Sullo sfondo le immagini dei più bei film della storia italiana. È un esempio di come andrebbe raccontato il cinema italiano. Nel potente ritratto montato da Tornatore si parla anche del rapporto di Lombardo con la fede. Dice Tornatore che Goffredo si riavvicinò all’altare dopo la morte del figlio. E non dice altro. Ma non fu solo questo. Passato attraverso il trauma della bancarotta causata dal furioso extrabudget de Il gattopardo e dal fallimento al botteghino di Sodoma e Gomorra di Aldrich, Lombardo si era messo a fare televisione, con la stessa passione impiegata nel cinema. Produsse la prima soap italiana, Edera interpretata da Agnese Nano. Prima del Grande Giubileo del Duemila realizzò una fiction dedicata alla Madonna, Maria figlia del suo figlio, con l’attrice israeliana Yaël Abecassis. Quando ne parlava, gli brillavano gli occhi. «È dedicata a mia madre», diceva agli amici. Leda Gys, infatti, aveva interpretato Maria in una storica Passione del cinema muto diretta da Giulio Antamoro. Nel Duemila volle pagare di tasca propria le spese della Giornata degli artisti organizzata dal Vaticano per il Grande Giubileo del Duemila. Quando Monsignor Enrique Planas, direttore della Filmoteca Vaticana, gli chiese cosa volesse come ricompensa, Lombardo chiese una foto del Papa con una dedica. Solo una semplice foto. Negli ultimi anni della sua vita, quella foto campeggiò solitaria nel grande scaffale dove erano stati ospitati trofei e targhe della sua attività cinematografica. Quando gli chiedevano che fine avessero fatto tutti quei riconoscimenti professionali, lui sorrideva e alzava le spalle. Il suo funerale si svolse nella cosiddetta “chiesa degli artisti”, nel centro storico di Roma, a pochi metri da casa sua. Era la stessa chiesa dove Goffredo Lombardo, tutte le mattine, andava a seguire la messa e a servire il prete nella liturgia. Con la stessa umiltà di un ragazzo. Con lo stesso sorriso.
Il cratere del Lido
Paolo Baratta, con un’intuizione, alla fine l’ha definita “La Mostra del Buco”. Il “buco”, ovviamente, è quello del cantiere abbandonato del nuovo Palazzo del Cinema che troneggiava nel bel mezzo delle strutture della 67ª edizione del festival veneziano. La definizione però si presta ad una lettura più articolata. Il “buco”, infatti, è anche quello del rapporto fra Baratta e il ministro Bondi (che infatti non è andato alla Mostra). Il “buco” è quello dei finanziamenti che dovrebbero garantire la vitalità del festival ma che continuano ad essere tragicamente inferiori a quelli del concorrente Festival di Roma. Il “buco”, infine, è quello delle incertezze del totonomine. I vertici sono in scadenza. Chi sarà il nuovo direttore della Mostra? Chi il nuovo presidente? Un “buco” nero, appunto.


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giovedì 14 ottobre 2010

domenica 10 ottobre 2010

mercoledì 21 luglio 2010

Il supercinema digitale senza windows

Il “Supercinemadigitale” ha ucciso le “windows” di sfruttamento e ha cancellato il confine fra cinema e tv. Il cinema ormai vive “anytime, everywhere, anyhow”, “in ogni momento, dovunque, in tutti i modi”. Solo così, dice Aldo Grasso, si può spiegare la decisione della Disney di abbattere le finestre geografiche di sfruttamento per il finale di stagione di Lost, uno spettacolo che è stato mandato in onda in diretta, praticamente senza pubblicità, in una decina di paesi diversi. «La spinta decisiva viene dagli spettatori» dice Grasso. «L’accorciamento dei tempi distributivi è un tentativo delle emittenti di combattere la pirateria che vive sul downloading e sullo streaming». Qualche sera fa, in un grande cinema romano, il proiezionista ha sbagliato rullo. Un film al posto di un altro. Dopo qualche lungo minuto di concitazione, finalmente arrivano i titoli di testa di quello giusto. Un cartello di Sky Cinema ha però suscitato qualche ilarità. Compare sullo schermo la domanda: «Voglia di cinema?». «Magari», mormora qualcuno. Risatine fra il pubblico. Poi la risposta, grande e colorata. «Sky Cinema». «Era meglio stare a casa, quindi», dice una ragazza mentre la sala esplode in una risata omerica. A rappresentare le dinamiche del rapporto fra i nuovi pubblici digitali e le major dei contenuti, ci ha pensato uno spot di una nota bibita analcolica. Prodotto per i mondiali di calcio, lo spot mostra tre campioni impegnati in una sfida improbabile contro alcuni ragazzini africani. La partita è improvvisata per strada, nella polvere della savana. I limiti del campo e lo spazio delle porte sono segnati dalla moltitudine ridente e colorata che assiste al match. Quando i campioni, palla al piede, tentano di raggiungere la porta avversaria, il campo però si muove con loro rendendo impossibile il goal. Alla fine uno dei tre tenta un pallonetto. Il pallone vola alto ma il campo, velocemente, si gira. Ed è autogol. È una feroce rappresentazione della debolezza delle grandi major di fronte al cambiamento. Per quanti sforzi si facciano, alla fine, è il mercato a decidere dove, quando e come consumare cinema. Se in sala, in tv, sul web o sul telefonino. «Chi si illude di poter gestire il nuovo contesto secondo le logiche e le convenzioni che hanno governato i successi del passato, è un ingenuo sognatore destinato a svegliarsi, incompreso, ai margini del nuovo mondo ove i contenuti sono ormai proprietà deperibili e le decisioni sono assunte in tempo reale», dice Enrico Valdani, docente della Bocconi e presidente della Società Italiana Marketing, nella prefazione di “Marketing Televisivo. Strumenti e modelli di business per competere nel nuovo mercato digitale” curato da Carlo Nardello e Carlo Alberto Pratesi. Il libro è edito dal Sole 24 Ore con la collaborazione di Rai Zone. Secondo Valdani «il vecchio mondo è stato spazzato via da almeno tre tsunami: la forza perenne di un consumatore in continua evoluzione, sempre più sofisticato, critico, autocosciente e posto al centro di stimoli emozionali sempre più numerosi e accattivanti; la forza inesorabile del cambiamento tecnologico, un’onda in grado di abbattere qualunque barriera industriale e istituzionale che favorisce la fruizione dei contenuti anytime, everywhere, anyhow, on demand, free e pay per view; la conseguente forza della concorrenza, che si allarga a livello geografico, intrasettoriale e intersettoriale, nel meta-mercato globale delle comunicazioni e dell’intrattenimento digitale». Al prossimo Roma Fiction Fest, Marco Spagnoli modererà un dibattito su “Cinema è televisione”. Massimo Bernardini, invece, coordinerà, fra gli altri, un convegno su “Senza la tv, per una nuova narrazione crossmediale” organizzato dai cinefili dei “100autori”. Mentre il più togato premio degli sceneggiatori cinematografici, il “Solinas”, presenta un concorso inedito per pilot di serie tv. Le windows sono proprio morte. Viva il nuovo “Supercinemadigitale”. «Anytime, everywhere, anyhow».


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giovedì 10 giugno 2010

Cinema laziale?

Il futuro del cinema italiano è laziale. La tv e il cinema sono sempre più interconnessi e il Lazio è il primo posto al mondo dove questa convivenza si stia trasformando in un vero e proprio matrimonio. È l’intuizione della Fondazione Rossellini, nata un paio di anni fa grazie al mandato della giunta regionale di Piero Marrazzo. Adesso tocca al nuovo governatore, Renata Polverini, capire subito da che parte stare. Secondo alcune fonti, l’80% delle industrie del settore hanno la propria sede e la propria attività principale proprio nella regione che ora è governata dalla Polverini. Si parla di un settore che nel 2014 potrebbe generare un giro di affari in crescita per oltre 10 miliardi di Euro, rispetto agli 8 miliardi e mezzo del 2008. Di questi, almeno i tre quarti gravitano e sempre di più graviteranno nel Lazio. Sarebbe un errore quindi se si arrivasse alla conclusione che l’audiovisivo è marginale rispetto all’universo delle priorità regionali. Allo sviluppo dell’audiovisivo infatti non è affidato solo il destino di 80 mila professionalità considerate fra le migliori del mondo. Al distretto laziale dell’audiovisivo è assegnato soprattutto il compito di aiutare lo sviluppo complessivo dell’intera produzione nazionale. Non sembri esagerato ma l’efficacia della promozione e del marketing che un uso accorto dell’audiovisivo può generare è direttamente proporzionale allo sviluppo del territorio. Lo sanno bene in Piemonte dove la crescita della Film Commission è stata seguita e coccolata con cura. Lo sanno bene in Puglia dove la nuova giunta ha già fatto sapere di voler dedicare risorse allo sviluppo della cinematografia locale. Sarebbe paradossale che i nuovi governanti del Lazio sottovalutassero di essere capitati nel luogo giusto e, soprattutto, nel momento giusto. L’intenso lavoro svolto in questi anni ha permesso la nascita di veri e propri gioielli come il Festival del cinema di Roma (grandemente finanziato proprio dalla Regione Lazio), il Roma Fiction Fest (nato e cresciuto interamente dentro alla Regione) e la Fondazione Rossellini. Ci sono le iniziative di formazione che Cinecittà Luce, grazie ai finanziamenti della Regione, ha avviato con successo in Marocco. C’è anche il progetto di un parco a tema cinematografico che Cinecittà Studios guidata da Luigi Abete vuole realizzare dalle parti di Pomezia. Sono dati parziali ma sufficienti per capire che una delle partite importanti della prossima giunta si giocherà proprio sul tema dell’audiovisivo anche grazie a questa formula inedita che abbatte gli steccati fra industria cinematografica e televisiva. Alcune settimane fa se ne è andata prematuramente una grande dell’audiovisivo italiano, Alessandra Zingales. Uno dei suoi amici, Tom Mokridge, l’aveva soprannominata channel doctor, per la sua capacità e il suo talento editoriale e organizzativo. Era stata anche a capo di Telemontecarlo, è stata fra i fondatori e gli animatori del Roma Fiction Fest e, da alcuni anni, gestiva una propria società di produzione, la Polivideo. Al suo funerale erano in molti ad avere gli occhi lucidi. Guardandosi intorno però si aveva la sensazione di essere capitati nel gruppo giusto. In questi anni di attività la Zingales ha avuto la capacità di focalizzare il meglio del cinema e della tv italiani. Le persone al suo funerale erano quelle che hanno fatto e che, probabilmente, continueranno a fare la differenza per l’audiovisivo di qualità del nostro paese. Ecco, se c’è un augurio da fare alla Polverini, è proprio questo: di riuscire ad utilizzare il ruolo strategico della Regione Lazio per continuare a far crescere quel polo di eccellenza mondiale che è rappresentato dal cinema e dalla televisione del nostro paese. Ci starebbe bene anche l’istituzione di un premio per i manager dell’audiovisivo di qualità, senza steccati fra cinema e tv, dedicato proprio alla memoria della Zingales. Magari porta fortuna.


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mercoledì 5 maggio 2010

Ma quale crisi del cinema!

Alla fine Giuseppe Tornatore s’è anche arrabbiato. Gli avevo domandato qualcosa a proposito della crisi del cinema italiano. «Se fossimo così bravi a vendere i nostri film all’estero così come siamo bravi a parlare della crisi del cinema italiano, la nostra cinematografia sarebbe la più forte del mondo», ha detto, cercando di smussare con un’iperbole e con un sorriso il proprio nervosismo. Aveva ragione. Era la domanda sbagliata. Ma, soprattutto, erano il momento e il luogo sbagliati. L’incontro, un seminario su “La scrittura creativa. Dalla parola all’immagine”, era stato organizzato dal Master in Gestione della Produzione Cinematografica e Televisiva della Luiss Business School Guido Carli con la collaborazione della Lux Vide. Al tavolo, accanto a Tornatore, c’era Alessandro D’Avenia, insegnante di lettere in un liceo di Milano, sceneggiatore e romanziere. Era proprio la presentazione del suo romanzo d’esordio, Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori), il motivo dell’incontro. Si stanno svolgendo in questi giorni le trattative per la riduzione cinematografica del libro. D’Avenia racconta un’intensa storia d’amore fra adolescenti, con un carattere forte e con una sincerità di sentimenti (e di linguaggio) ai quali non siamo più abituati. «I genitori dei Moccia o dei Muccino – ha detto D’Avenia – sono degli adulti che cercano di tornare adolescenti e si comportano come tali. Non deve stupirci quindi che i veri adolescenti possano rifiutarsi di crescere, di diventare adulti. Con un tale esempio, è legittimo chiedersi: ma chi me lo fare di crescere se poi l’unico desiderio che riesco a guadagnare è quello di tornare indietro”. C’era anche Monica Zappelli, la sceneggiatrice che vinse il David di Donatello per il film Cento passi. E c’erano due attori, Valentina Cervi e Alessandro Preziosi, per la lettura di alcuni brani del libro di D’Avenia. «Mi sono commossa leggendo le pagine del libro che mi avevano mandato. Questo mi ha molto sorpreso», ha detto Valentina Cervi. «Ma non voglio parlare del film che sarà» ha detto D’Avenia un po’ per prudenza. Le trattative sono ancora in corso. Un po’ perché non so ancora come sarà il film. Sarà diverso dal libro. Sarà interessante per me scoprirlo». La sala era piena zeppa di studenti, non solo del master. C’erano infatti alcuni studenti del liceo dove insegna D’Avenia. «Grazie per avermi fatto scoprire il piacere della lettura», gli ha detto uno di loro. Tornatore, in mezzo agli studenti, sembrava a proprio agio. «Non dico mai di no quando si tratta di parlare a dei giovani che vogliono imparare», ha detto. I ragazzi, nella sala, pendevano dalle sue labbra. «Come si fa a riconoscere il capolavoro sul quale investire?», hanno chiesto a Tornatore. «Non lo so» ha risposto. «Non c’è un trucco o una regola da seguire. Una cosa però la so. I produttori di una volta conoscevano il cinema. Mi accompagnavano nella sala di montaggio. Erano in grado di capire i problemi di chi girava. Conoscevano la tecnica ed erano anche uomini di cultura. Pieni di interessi. E poi, soprattutto, leggevano tanto, leggevano tutto. Non solo le sceneggiature (che mi tornavano piene di appunti) ma anche la letteratura contemporanea e classica. Grazie a questo insieme di straordinarie caratteristiche riuscivano a fare cinema. I produttori di oggi, invece, sembrano interessati solo ai conti. Non tutti, certo. Io finora sono stato fortunato con i miei produttori. Ma altri invece sembrano aver perduto lo spirito. È un peccato. Se diventerete produttori, fate questo lavoro con vera passione e vera cultura. Soprattutto, non smettete mai di leggere». I ragazzi, raggianti, lo hanno applaudito a lungo. D’Avenia li guardava con una luce negli occhi. Alla fine ha augurato ai suoi studenti di «essere ribelli per le sole tre cose che contano: verità, bellezza e bene». Aveva ragione Tornatore. Parlare di “crisi del cinema” in un simile contesto era una bestialità.


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sabato 24 aprile 2010

IL CINEMA RUSSO? A ROMA

Il cinema di Putin sta per travolgere Roma. Uliana Kovaleva ha 39 anni, ha studiato la nostra lingua a Perugia ed è il socio più giovane della United Film Company di Mosca. Insieme con Roberto Bessi, il Centro Sperimentale di Cinematografia e Rai Cinema ha coprodotto l’opera prima di Valerio Mieli “Dieci inverni” con Michele Riondino e Isabella Ragonese. Il film ha vinto in Russia il primo premio "Gold Taiga" del festival di Hanti-Mansiysk, è stato presentato a Mosca ed è pronto per andare al festival di Tokio dopo essere stato a Los Angeles nella settimana prima degli Oscar. La Kovaleva adesso sta preparando una nuova coproduzione per un film che si intitola “Tre russe a Roma” e che sarà ambientato nel mondo romano dello spettacolo e della moda. “La Russia è come uno scrigno dove sono stati conservati i valori piu profondi e autentici della cultura europea”. Ma quali sono i valori che contano? “La grandezza dell’anima, quella vera che è dentro di noi”, dice. E allarga le braccia. “Sono i valori raccontati da Tolstoj, Dostojevski che per oltre settanta anni sono stati come conservati al riparo, non sono stati contaminati dalla gretta superficialità della modernità del dopoguerra, quella della Coca Cola selvaggia e del capitalismo senza freni. Adesso, dopo il periodo sovietico, la Russia è finalmente pronta a condividere di nuovo questa ricchezza con gli italiani e con tutti gli europei che sapranno capire”. Cosa potrebbero imparare gli italiani dai russi? “Potrebbero imparare l’importanza della grandezza dell’anima. Noi russi, insieme con gli italiani, potremmo riscoprire i valori che contano e capire insieme quale forma nuova si potrà dare loro”. La forma? “L’Italia è la patria dell’arte, arte in tutto e di tutto, dal diritto alla pittura e al design. La vostra cultura è attuale da più di tremila anni, avete tutti gli strumenti. Noi siamo abbondanti e generosi, nelle materie prime, negli spazi, nella cultura, nello spirito di accoglienza, nell’energia e nella forza, ma paradossalmente siamo ancora informi. Insieme potremo fare grandi cose e riscoprire le forme per i valori del terzo millennio”. Come è arrivata a scegliere “Dieci inverni”? “Da tempo cercavo una storia da coprodurre con l’Italia. Il vostro governo, in modo lungimirante, cinque anni fa aveva firmato una convenzione bilaterale con la Russia per la produzione cinematografica ma l’accordo era rimasto dormiente. Per me era diventato un punto di orgoglio. Ma le storie che mi arrivavano erano tutte troppo stereotipate. Poi, per fortuna, il mio amico Roberto Bessi mi ha fatto leggere lo script di Mieli. L’ho amato subito e ho capito che era il film giusto per raccontare la Russia senza stereotipi”. Il prossimo film? “Racconta di tre ragazze russe moderne, anche belle, ma soprattutto intelligenti e generose anche se spesso ingenue, che arrivano a Roma attratte dal mondo dello spettacolo, della moda, del cinema e della musica. Scoprono anche l’amore con giovani italiani, tipo “Vacanze romane”. Sono ragazze normali con un sogno simile a quello di mille altre ragazze nel mondo. Ma, come valore aggiunto, sono russe. A Roma si scontrano con le difficoltà della signora che gestisce un’agenzia di collocamento. Invece di abbandonarla al suo destino, decidono di fermarsi e di aiutarla”. Cosa augura alla Russia? “Di non perdere i valori che siamo riusciti a preservare fino ad oggi. È facile perdersi: l’attrazione del male è primitiva e molto forte. Con il cinema noi possiamo fare molto. Le immagini belle aiutano a difendere la bellezza. L’immagine sbagliata invece conduce inevitabilmente verso il male. È meglio per tutti conservare e promuovere i valori che contano, quelli veri, quelli che sono dentro di noi, i valori che abbiamo in abbondanza, e che, insieme con voi, costruiremo con forme nuove”. È contagioso l’entusiasmo di questa giovane produttrice russa. Ma quanti italiani la seguiranno nell’esplorazione del mercato russo e Far East? Ah, saperlo!

domenica 7 febbraio 2010

Born to be wild, il futuro dei cine festival

Nati per essere selvaggi, i festival cinematografici hanno tradito la loro missione e sono diventati noiosi. Il cinema è ancora oggi il principale driver delle scelte delle giovani generazioni in tutto il mondo ma le macchine festivaliere si sono imbolsite. Hanno perso il gusto per l’avventura e per la scoperta. Siamo in attesa di andare nella fredda Berlino a vedere “Metropolis” in versione integrale (una novità nientemeno del 1927, sbadiglio) e abbiamo archiviato le edizioni 2009 di Venezia (perennemente corrucciata per l’assenza del mercato), Roma (con le botte di orgoglio politicante di Bettini che dice Il festival è ancora mio nonostante Alemanno e il centrodestra, tiè) e Torino (molto strillato nella versione autorale di Amelio dopo Moretti ma decisamente poco selvaggio). Ci scappa così il tempo per immaginare il festival che vorremmo. Nel sogno, come spesso accade, le location, Venezia Roma e Torino, si confondono e si mischiano con le fattezze impettite dei vari Muller, De Tassis, Amelio, ecc. Ci siamo divertiti a sognare una cerimonia dove il direttore dice soltanto Benvenuti ed ecco aperta la mostra. E basta. Un posto insomma dove la politica e il protagonismo dei vertici lascino lo spazio all’unico oggetto sociale dei festival: lo stupore del film che non ti aspetti. Per il gala, al posto degli speech, aiuterebbe un po’ di musica. Sarebbero perfetti, per esempio, Rodrigo y Gabriela, due simpatici messicani, mostri di bravura, che hanno trasferito gli standard musicali dell’heavy metal nel mondo della chitarra acustica. “Crazy version, I hope you like it”, ha detto ridendo Gabriela prima di un concerto a Manchester. I loro pezzi (con due chitarre e basta) sono un fuoco di artificio di ritmo e di sorpresa ad ogni nota. Nella cerimonia di una qualsiasi sala grande, fra smoking e improbabili abiti lunghi, ci starebbe bene una cascata scoppiettante di suoni come quella proposta dalla loro musica. Ascoltate per credere alcuni cavalli di battaglia come Juan loco, One o le cover Orion dei Metallica e Stairway To Heaven dei Led Zeppelin. Per svegliarci dalla noia burocratica che ha ormai colpito i festival cinematografici di casa nostra (interminabili, per esempio, tutte le conferenza stampa e ormai insopportabili i sermoncini in politichese di registi e attori di casa nostra in ogni festival) bisognerebbe proprio dare retta a Gavin, il re dei dj del Regno Unito negli anni sessanta. "La cosa che dà un senso a questo mondo folle è il rock and roll. E io sono stato folle a pensare che avrei mai potuto abbandonarlo" dice nel film “I love Radio Rock” di Richard Curtis con Kenneth Branagh, Philip Seymour Hoffman e Emma Thompson, un film che, secondo la Tornabuoni, propone “grazia e divertimento fuori del comune”. Che è appunto ciò che manca ai nostri festival. Le cine-gare nacquero per portare un po’ di pubblico fuori stagione in alcuni grandi alberghi balneari, a Venezia con il Conte Volpi e, subito dopo, a Cannes. È stato un periodo divertente. Smoking bianchi e paparazzate fino a tarda notte. Ma già allora si poteva capire che il futuro dei festival sarebbe stato “selvaggio” o non sarebbe stato affatto. Lo sa bene Robert Redford con la fortunatissima formula del “Sundance”. Lo avevano ben capito a Venezia qualche anno fa due pionieri come la Cattani e Ferzetti quando inventarono la “Finestra sulle immagini”. We were born, born to be wild. Noi eravamo nati per essere selvaggi, cantavano gli Steppenwolf una quarantina di anni fa nella colonna sonora di Easy rider. E aggiungevano: Head out on the highway.
 Lookin' for adventure. 
And whatever comes our way.
 Yeah Darlin' go make it happen. Guida fuori dalla strada maestra. Cerca l’avventura e qualsiasi cosa accada, ti prego, fa che accada. Una formula perfetta per cercare di recuperare l’attenzione del grande pubblico cinematografico delle giovani generazioni, il pubblico cioè che decreta i successi dei blockbuster e che è l’unico, quindi, che interessa ancora a chi fa il cinema veramente.

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Il prete di Verdone non prega mai

“I preti tendono a mimetizzarsi, vivono e vestono come laici e si vergognano di mettersi anche una crocetta sul maglione. Così non c'è da stupirsi se finisce che il semplice fedele poi si vergogna pure a farsi il segno della croce in pubblico”. Così ragionava Alberto Sordi, nel 2000, in un’intervista al mensile “30 giorni”. Avrebbe bisogno di rifletterci anche Carlo Verdone. Nel suo nuovo film “Io, Lara e loro” interpreta un prete missionario in crisi che torna a casa dopo venti anni passati in Africa. A Roma trova però una situazione molto caotica e deciderà presto di tornare in missione ad affrontare siccità e banditi di strada insieme con le mille difficoltà della povertà del terzo mondo pur di evitare i nevrotici problemi quotidiani della sua famiglia. Il prete di Verdone non prega mai, durante tutto il film, e neanche una volta si mostra vestito completamente da prete, tranne che per un fugace clergyman indossato distrattamente un paio di volte. In una di queste occasioni, con il colletto rigido che gli gonfia il collo, domanda con durezza a due brutti ceffi molto malintenzionati: “Che la portate a fare questa croce al collo?”. È la stessa domanda che vorremmo rivolgere a Verdone. Perché un prete? La stessa storia non poteva essere raccontata anche da un personaggio un po’ più laico? Dalla visione del film si esce confusi. Presi da due desideri ugualmente urgenti. Stroncare e lodare. Alla figura del prete descritta da Verdone manca infatti la dimensione più importante, quella religiosa. L’assenza della prospettiva del trascendente, l’unica in grado di giustificare la vocazione sacerdotale, rende il personaggio opaco e ambiguo. D’altra parte il pubblico del film, dopo i titoli di coda, inizia subito a discutere animatamente di preti e di missionari. Una bella novità in un’epoca e in un contesto sociale che sembrano aver completamente dimenticato la generosa attività che i sacerdoti in tutto il mondo svolgono silenziosamente e gratuitamente nella nostra vita. Giancarlo Zizola, qualche giorno fa su “La Repubblica”, si lamentava del fatto che i preti, quando predicano dal pulpito, usano gli argomenti divini per temi molto terreni (il costume, la politica). È una visione vecchia. Nelle parrocchie in Italia e in tutto il mondo, i preti sempre di più sono impegnati a parlare soprattutto di Dio e dei Suoi sacramenti. Secondo le linee del “Progetto culturale” lanciato da Giovanni Paolo II e coordinato ancora oggi dal Cardinale Camillo Ruini, è la realtà sociale e politica nella quale viviamo a spingerli (e a spingerci) a rivolgere gli occhi verso l’alto. "La comunicazione deve favorire la comunione nella Chiesa, altrimenti diventa protagonismo individuale oppure, ed è ancora più grave, introduce divisione. All'evangelizzazione non servono i preti showman", ha detto recentemente Monsignor Mauro Piacenza, Segretario Generale della Congregazione per il Clero, nel suo intervento alla Giornata di Studio su "La comunicazione nella missione del sacerdote" organizzata dalla Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce. Secondo Monsignor Piacenza, "il sacerdote non deve improvvisare quando utilizza i mezzi di comunicazione e neppure deve comunicare se stesso, ma duemila anni di comunione nella fede, un messaggio che può essere trasmesso soltanto attraverso la propria esperienza e vita interiore".

Il film di Verdone esce proprio all’inizio dell’anno sacerdotale indetto dal Papa. “Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio – ha detto recentemente Benedetto XVI (Udienza generale del 24.06.2009) -. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono che esistono "da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione… Dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento". A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno".

Proprio in questi giorni sono stati pubblicati i dati dei missionari uccisi nel 2009. Si tratta di trentasette sacerdoti assassinati, per lo più brutalmente. “La loro testimonianza eroica dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto sia utile una presenza di questo genere in zone deteriorate e devastate dal sopruso – scrive Lucetta Scaraffia in un suo articolo per l’Osservatore Romano -. Senza armi — e spesso con pochissimi mezzi, certo molti di meno di quelli dei poteri violenti che essi combattono — questi cattolici dimostrano con il loro esempio che un altro mondo è possibile, un mondo di solidarietà e verità, di amore gratuito. E già questo basta a renderli un bersaglio mortale”.

Verdone, nel suo film, riesce soltanto a sforare la complessità del tema. “Quando non si tiene conto del “dittico” consacrazione-missione, diventa veramente difficile comprendere l’identità del presbitero e del suo ministero nella Chiesa – ha spiegato Papa Ratzinger durante l’Udienza generale dello scorso 1 luglio -. Chi è infatti il presbitero, se non un uomo convertito e rinnovato dallo Spirito, che vive del rapporto personale con Cristo, facendone costantemente propri i criteri evangelici? Chi è il presbitero se non un uomo di unità e di verità, consapevole dei propri limiti e, nel contempo, della straordinaria grandezza della vocazione ricevuta, quella cioè di concorrere a dilatare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra? Sì! Il sacerdote è un uomo tutto del Signore, poiché è Dio stesso a chiamarlo ed a costituirlo nel suo servizio apostolico. E proprio essendo tutto del Signore, è tutto degli uomini, per gli uomini”.

Alcuni sacerdoti romani, che hanno avuto il privilegio di vedere con molto anticipo una copia del film di Verdone, lo hanno ringraziato e gli hanno detto “ci hai accarezzato”, tanto che Verdone si è giustamente sentito autorizzato a dire che la Cei aveva approvato il suo film. La valutazione pastorale espressa dalla commissione nazionale valutazione film della Cei è molto benevola. “Va diretto al cuore del problema Carlo Verdone in questo suo nuovo racconto che, con un indovinato scarto di sceneggiatura, gioca sul repentino rovesciamento della situazione iniziale – scrivono gli esperti cinematografici dei vescovi italiani -. Calandosi in questo personaggio di sacerdote generoso, disponibile, aperto, forse un po' ingenuo, Verdone si crea le premesse per gettare sull'Italia contemporanea uno sguardo amarognolo, fatto di qualche delusione e insieme di molta voglia di riscatto. La constatazione finale dice che l'Italia é, per motivi opposti all'Africa, scenario di una differente ma non meno necessaria missione di recupero di valori civili condivisi. E in questo scenario il ruolo del sacerdote non è certo secondario. Circondato da un coro di figure piccole e grandi (i "mostri" di oggi), Verdone é bravo a suscitare divertimento di fronte ad argomenti per i quali in fondo c'è ben poco da ridere. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come consigliabile e, nell'insieme, brillante”.

Il prete di Verdone insomma manca l’obiettivo di rappresentare la complessità moderna del ministero sacerdotale; ne coglie però un aspetto altrettanto interessante, come forse è stato intuito dagli esperti della Cei. Verdone, infatti, ci racconta cosa vedono i laici nei preti di oggi e cosa pensano del ministero sacerdotale. È ovvio quindi che manchi la dimensione del trascendente perché (e non certamente per colpa di Verdone) detta dimensione è sparita dalla nostra quotidianità, anche e soprattutto nel rapporto che abbiamo con i sacerdoti, ai quali siamo ormai capaci di chiedere di tutto (come fanno anche i parenti con il personaggio interpretato da Verdone) tranne l’unica cosa per la quale il prete ha una qualche competenza specifica: la preghiera.

Giovanni Paolo II, nel 1979, all’inizio del suo Pontificato, nella sua “Lettera a tutti i sacerdoti della Chiesa”, aveva scritto: “Forse negli ultimi anni, almeno in certi ambienti, si è discusso troppo sul sacerdozio, sull’”identità” del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc. ed al contrario si è pregato troppo poco. Non c’è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per confermare l’identità sacerdotale”. Giovanni Paolo II, dieci anni più tardi, nel 1988 a Torino, aveva sottolineato che “Il sacerdote è colui che trasmette la vita divina agli uomini. Potrà essere anche debole, imperfetto, certamente mai pari alla grande fiducia che Dio gli ha fatto, chiamandolo ad essere suo ministro. Ma la sua forza, la sua ricchezza sta primariamente qui: divinizzare gli uomini, santificarli, nutrirli di Dio”. Il sacerdote, insomma, al contrario di quello interpretato da Verdone, “è un uomo che non si appartiene”, (sempre Giovanni Paolo II, nel 1988, ad alcuni sacerdoti a Nepi). Un’immagine che sembra il contrario del prete disegnato da Verdone, attaccato alle cose di questo mondo tanto da arrivare a spiare la ragazza svestita in camera da letto.

Nella giornata del Giubileo del Duemila dedicata al mondo dello spettacolo, Wojtyla disse: “Carissimi, voi che lavorate con le immagini, i gesti, i suoni; in altre parole, lavorate con l'esteriorità. Proprio per questo, voi dovete essere uomini e donne di forte interiorità, capaci di raccoglimento. In noi abita Dio, più intimo a noi di noi stessi, come rilevava Agostino. Se saprete dialogare con Lui, potrete meglio comunicare con il prossimo. Se avrete viva sensibilità per il bene, il vero e il bello, i prodotti della vostra creatività, anche i più semplici, saranno di buona qualità estetica e morale. La Chiesa vi è vicina e conta su di voi!”. In Piazza San Pietro, ad ascoltarlo c’era anche Alberto Sordi, da molti considerato il vero “padre artistico” di Verdone. “Il mio rapporto con il Padreterno si basa proprio sull'educazione che fin da piccolo i miei genitori mi hanno dato così come mi hanno insegnato a camminare e a parlare – disse allora Sordi al giornalista di “30 giorni” -. Vado a messa, mi confesso, prego ogni giorno, credo nei dogmi e non li discuto. È bello credere, e non si crede facendo tanti ragionamenti: io sono cristiano, la vita mi ha sempre più convinto che il cristianesimo è vero. Che bisogno c'è di ragionarci su?”. Vero. Ma sempre Sordi aggiungeva, profetico: “Anche la Chiesa però può peccare di esibizionismo, di leggerezza, come quando è ossessionata dal problema di catturare il consenso dei giovani”.

Le sicurezze di plastica di George Clooney

Sono nuove sicurezze di plastica e si mettono nel portafoglio. Rappresentano il passpartout per i benefit esclusivi ma effimeri del club dei moderni precari del lusso. È questa la parte più divertente di “Tra le nuvole - Up in the air”, la commedia diretta da Jason Reitman (“Juno”, “Thank you for smoking”), interpretata da George Clooney e che esce nelle sale il 15 gennaio. In una scena di seduzione da terzo millennio, Clooney, sfoderando una dopo l’altra le sue speciali carte di frequent flyer, cerca di fare colpo su una donna incontrata per caso al bar. Lei esclama con un’ammirazione che è già venata di desiderio: “Oh, ma hai anche questa. Non ne ho mai vista una dal vero”. Il sogno di Clooney è la super card di coloro che hanno collezionato 10 milioni di miglia. Ma quando alla fine ci riuscirà, non gli sembrerà più così importante. La regola d’oro del marketing delle carte dei frequent flyer è che il cliente “target” deve essere cercato proprio fra i forzati del cosiddetto “club dello Xanax”. Alla generazione di mezzo che vive nella paura costante della precarietà (un club caratterizzato dalla dipendenza degli ansiolitici tipo lo Xanax, appunto) è più facile vendere la compensazione fasulla dell’accesso alle lussuose lounge degli aeroporti internazionali e alle altre forme di personal ed executive concierge. Si tratta di uno status symbol che sembra curare la ferita del narcisismo eccitato dalla bestialità del mercato del lavoro e che rianima l’ego indebolito.

Nel film di Reitman, Clooney interpreta Ryan Bingham, un tagliatore di teste che, per 300 giorni l'anno, vola da una città all’altra degli Usa. È un vero mercenario del licenziamento e corre in soccorso delle aziende che non hanno il coraggio di comunicare direttamente la “brutta” notizia ai dipendenti che stanno per essere cacciati. Gli aeroporti, le camere di albergo, le lounge e, ovviamente, la prima classe in aereo sono la sua vera casa. Ryan arriva al check in, striscia la sua carta platinata e il computer lo riconosce immediatamente. “Ben tornato, mister Bingham”, dice la hostess con un sorriso. “È la cosa che mi piace di più del mio lavoro”, dice Ryan.

È divertente l’interpretazione che ne hanno dato al Manifesto. Secondo il quotidiano “gattocomunista” si tratta di “una metamorfosi mostruosa del tipo beatnik. Sull'aria, invece che «sulla strada». Se Jack Kerouac fosse stato cattivo «dentro» e non un poeta - scrive Roberto Silvestri -; se avesse indossato cravatte e completi Armani e al posto dei suoi adorati «finestrini-da-treno-come-cinemascope» della Union Pacific avesse preferito volare e collezionare mille-miglia American Airlines, studiando a fondo, più del buddismo mahayana, il regolamento per collezionare punti e vantaggi con Hertz e Hilton hotel, avrebbe avuto il volto e il fascino on the road di George Clooney. Insomma lo yuppick, il «bobos» di oggi, un lupo solitario munito di palmare, 24 ore e carte di credito super Vip”.

Divertente, è vero, ma fa anche riflettere. Il vuoto delle nuvole, questo perenne “Up in the air” dal quale il protagonista non riesce a fuggire, neanche quando ha un momento di debolezza e, finalmente, sta per cedere all’amore, è una rappresentazione realistica del paradosso che tutti noi stiamo vivendo. Il cielo deserto fino all’orizzonte (come solo da un finestrino di un aereo si può vedere) sembra il simbolo del vuoto culturale ed etico di un’intera generazione.

La crisi economica che, come uno tsunami, ha attraversato e sconvolto banche e centri di affari, trasformando in un attimo la vita di centinaia di migliaia di individui in un incubo, ha generato una nuova insicurezza. Succede anche da noi, in Italia. Negli enti pubblici e in alcune grandi aziende private, si è intensificata la girandola delle nomine di presidenti, amministratori delegati, consiglieri e dirigenti. Al centro di questo mesto girotondo c’è il potere che assegna le poltrone secondo l’estro del momento e in barba a competenze e meriti reali. È un sistema perverso che mortifica l’ego dei malcapitati di lusso e che li condanna all’iscrizione a vita al club dello Xanax. Lo diceva qualche tempo fa, fingendo una pallida sicurezza, anche uno dei tanti mega dirigenti Rai in attesa del verdetto del cda su un suo possibile avanzamento di carriera: “Inutile agitarsi. Non dipende da me o da quello che so o posso fare”. C’è quindi nel film di Reitman molto di più di ciò che si vede e che ci fa sorridere. Ad una prima lettura, può sembrare solo una analisi di costume della nuova ondata di disoccupazione che sta colpendo gli Usa. Reitman si vanta di aver fatto interpretare i licenziati del suo film non da attori ma da persone comuni che davvero hanno perduto il lavoro: “Autentici, realistici disoccupati di Detroit e St. Louis. Bravissimi”, dice il regista. “Sfido”, chiosa acidamente Lietta Tornabuoni su “La stampa”.

Ma il film è anche una riflessione filosofica sul vuoto della nostra vita. In un mondo che ha perso di vista i punti di riferimento rimane ben poco a cui aggrapparsi. Le sicurezze di plastica, le fast track negli aeroporti o alle reception degli alberghi, le poltrone di lusso negli aerei, il primo posto garantito nelle prenotazioni delle automobili, diventano così un palliativo di certezza in una vita dove abbiamo smarrito il senso stesso della stabilità.

Reitman, come aveva già fatto anche in “Juno”, alla fine sembra indicare una sola via d’uscita: la riscoperta degli affetti della famiglia e degli amici. Altrimenti cosa rimane? Quando finalmente consegnano a Ryan la carta più desiderata, quella dell’impossibile elite dei dieci milioni di miglia, lui è in volo. Il capitano dell’aereo si siede accanto a lui e gli chiede: “Da dove viene?”. Ryan non risponde subito. “Io sono di qui”, dice alla fine con una nota appena percettibile di sgomento nella voce, mentre sullo schermo scorrono le nuvole, bianche e vacue, del cielo sterminato e privo di vita.

La giusta distanza

La promozione del cinema italiano nel mondo sembra più facile. I film italiani sbancano in mercati considerati inaccessibili. “Ex” di Brizzi, per esempio, in Spagna ha fatto registrare incassi milionari. Non era mai accaduto prima. Paradossalmente però il sistema di promozione del nostro cinema è anche in uno stato di grande confusione. Organizzativa e strategica. Il comparto è fermo ad un bivio, come il famoso asino indeciso fra paglia e acqua. Per sintesi, potremmo dare a queste due strade il nome di due donne: Carla e Lucia. Carla come Carla Cattani, dirigente di Filmitalia di Cinecittà – Luce, da più di vent’anni animatrice instancabile di una fitta rete di relazioni con i principali festival del mondo. “Tra i quali Cannes, Berlino, Buenos Aires, Toronto, Shanghai, Tokyo, Locarno, New York e Londra. Ma sono oltre un centinaio i festival internazionali con cui Filmitalia ha attivato una collaborazione, mediante l’organizzazione delle selezioni nazionali così come della presenza dei film e degli artisti italiani”, dice la Cattani. Lucia come Lucia Milazzotto, da tre anni alla guida di New Cinema Network, un sofisticato laboratorio di “pitch” (dal linguaggio del baseball, “lancio”) di progetti anche italiani. Per tre giorni, all’interno delle strutture del Mercato del Festival del Cinema di Roma, i nuovi progetti vengono sottoposti ad una raffica di appuntamenti. Il migliore viene anche premiato da una giuria di produttori internazionali. “Questo spazio di mercato – dice la Milazzotto - è il luogo ideale dove i registi, selezionati tra i più interessanti talenti del panorama del cinema indipendente, possono presentare il loro progetto e instaurare nuovi rapporti di co-produzione con produttori, distributori e finanziatori europei”. Due modi sostanzialmente diversi di perseguire il medesimo obiettivo. Più “materno” e protettivo il primo. Più sfidante e pragmatico il secondo. I registi italiani sembrano innamorati di entrambi. Legati alla Cattani (sono molti gli autori che le fanno vedere in anteprima i propri film) i registi, soprattutto i più giovani, cominciano a guardare con interesse però anche alle nuove leve del mercato come quelle proposte dalla Milazzotto. Marco Muller, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, ha lanciato un appello a Roberto Cicutto a mezzo stampa. Cicutto è produttore (è suo il “Christine Cristina” di Stefania Sandrelli presentato al festival di Roma), Presidente di Cinecittà-Luce (quindi capo della Cattani) e, infine, Direttore del Mercato Internazionale del Festival di Roma (e quindi capo anche della Milazzotto). In un’intervista al Sole 24 ore, Muller lo sfida a costruire insieme un mercato unico “Roma-Venezia” per rilanciare il prodotto italiano. “Cicutto fa già molte cose – ha confidato sorridendo Muller agli amici -. Si occupi anche della nascita del primo mercato interfestival”. I produttori italiani intanto stanno cercando strade alternative. I Lucisano, ma non solo loro, hanno sposato la nuova strategia di posizionamento aggressivo sui mercati internazionali scelta dalla Rai Trade guidata da Carlo Nardello. La società, che si occupa della valorizzazione del patrimonio Rai, da un paio di anni mette le proprie strutture di vendita internazionale al servizio dei produttori cinematografici italiani. L’exploit di “Ex” in Spagna è figlio di questa politica. Scriveva Luciana Castellina nel 2000, quando era ancora presidente di “Italia Cinema”, la società dalla quale nacque “Filmitalia”: “Oggi è necessario dunque un vero processo di ri-acculturamento, di riconquista dello stato che il cinema italiano aveva presso i potenziali opinion makers”. “La giusta distanza” era il titolo di un bel film di Mazzacurati del 2007. La giusta distanza sarà, da oggi, il titolo di questa rubrica. La giusta distanza è anche quella che il cinema italiano dovrà recuperare sui mercati internazionali. Vicini per essere conosciuti e apprezzati. Pragmatici per ricordarsi che si tratta pur sempre di denaro.


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mercoledì 27 gennaio 2010

Born to be wild: il futuro dei festival

Nati per essere selvaggi, i festival cinematografici hanno tradito la loro missione e sono diventati noiosi. Il cinema è ancora oggi il principale driver delle scelte delle giovani generazioni in tutto il mondo ma le macchine festivaliere si sono imbolsite. Hanno perso il gusto per l’avventura e per la scoperta. Siamo in attesa di andare nella fredda Berlino a vedere Metropolis in versione integrale (una novità nientemeno del 1927, sbadiglio) e abbiamo archiviato le edizioni 2009 di Venezia (perennemente corrucciata per l’assenza del mercato), Roma (con le botte di orgoglio politicante di Bettini che dice «Il festival è ancora mio» nonostante Alemanno e il centrodestra, tiè) e Torino (molto strillato nella versione autorale di “Amelio dopo Moretti” ma decisamente poco selvaggio). Ci scappa così il tempo per immaginare il festival che vorremmo. Nel sogno, come spesso accade, le location, Venezia Roma e Torino, si confondono e si mischiano con le fattezze impettite dei vari Müller, Detassis, Amelio, ecc. Ci siamo divertiti a sognare una cerimonia dove il direttore dice soltanto «Benvenuti ed ecco aperta la mostra». E basta. Un posto insomma dove la politica e il protagonismo dei vertici lascino lo spazio all’unico oggetto sociale dei festival: lo stupore del film che non ti aspetti. Per il gala, al posto degli speech, aiuterebbe un po’ di musica. Sarebbero perfetti, per esempio, Rodrigo y Gabriela, due simpatici messicani, mostri di bravura, che hanno trasferito gli standard musicali dell’heavy metal nel mondo della chitarra acustica. «Crazy version, I hope you like it», ha detto ridendo Gabriela prima di un concerto a Manchester. I loro pezzi (con due chitarre e basta) sono un fuoco di artificio di ritmo e di sorpresa ad ogni nota. Nella cerimonia di una qualsiasi sala grande, fra smoking e improbabili abiti lunghi, ci starebbe bene una cascata scoppiettante di suoni come quella proposta dalla loro musica. Ascoltate per credere alcuni cavalli di battaglia come Juan loco, One o le cover Orion dei Metallica e Stairway To Heaven dei Led Zeppelin. Per svegliarci dalla noia burocratica che ha ormai colpito i festival cinematografici di casa nostra (interminabili, per esempio, tutte le conferenza stampa e ormai insopportabili i sermoncini in politichese di registi e attori di casa nostra in ogni festival) bisognerebbe proprio dare retta a Gavin, il re dei dj del Regno Unito negli anni sessanta. «La cosa che dà un senso a questo mondo folle è il rock and roll. E io sono stato folle a pensare che avrei mai potuto abbandonarlo» dice nel film I love Radio Rock di Richard Curtis con Kenneth Branagh, Philip Seymour Hoffman e Emma Thompson, un film che, secondo la Tornabuoni, propone «grazia e divertimento fuori del comune». Che è appunto ciò che manca ai nostri festival. Le cine-gare nacquero per portare un po’ di pubblico fuori stagione in alcuni grandi alberghi balneari, a Venezia con il Conte Volpi e, subito dopo, a Cannes. È stato un periodo divertente. Smoking bianchi e paparazzate fino a tarda notte. Ma già allora si poteva capire che il futuro dei festival sarebbe stato “selvaggio” o non sarebbe stato affatto. Lo sa bene Robert Redford con la fortunatissima formula del “Sundance”. Lo avevano ben capito a Venezia qualche anno fa due pionieri come la Cattani e Ferzetti quando inventarono la “Finestra sulle immagini”. We were born, born to be wild. Noi eravamo nati per essere selvaggi, cantavano gli Steppenwolf una quarantina di anni fa nella colonna sonora di Easy rider. E aggiungevano: Head out on the highway. Lookin’ for adventure. And whatever comes our way. Yeah Darlin’ go make it happen. Guida fuori dalla strada maestra. Cerca l’avventura e qualsiasi cosa accada, ti prego, fa che accada. Una formula perfetta per cercare di recuperare l’attenzione del grande pubblico cinematografico delle giovani generazioni, il pubblico cioè che decreta i successi dei blockbuster e che è l’unico, quindi, che interessa ancora a chi fa il cinema veramente.

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