giovedì 16 agosto 2007

Tutti vogliono Di Caprio, produttore ambientalista. I media Usa diventano verdi



di Andrea Piersanti

I media Usa vedono verde e tutti vogliono Di Caprio, da quando si è messo a produrre documentari ambientalisti. Dopo il lancio mondiale del documentario ecologista "L'undicesima ora" che l'attore di "Titanic" ha coprodotto con la Warner, il network televisivo mondiale "Discovery" non ha perso tempo e ha annunciato la nascita di un sodalizio strategico. Di Caprio, infatti, siede nel board di "Planet Green", il nuovo marchio tv che "Discovery" dedicherà ai temi dell'ecologia. La notizia è stata data da Eileen O'Neill, presidentessa di "Planet Green". "In questi ultimi 15 mesi –ha detto la O'Neill – la preoccupazione per una vita eco-sostenibile e per i cambiamenti climatici ha raggiunto il picco. È la tempesta perfetta per un tema così brutalmente vitale, e le ricerche dimostrano che il pubblico di Discovery è più predisposto di altri ad essere interessato a questi argomenti". La società di produzione di Di Caprio, la "Appian Way", insieme con Discovery, ha già cominciato la produzione di "Eco Town" , una serie televisiva tipo reality che seguirà gli sforzi eco-sostenibili di ricostruire la città di Greensburg, Kansas, distrutta da un tornado lo scorso anno. Per "Planet Green" è previsto un investimento iniziale di 50 milioni di dollari. Già in fase di sperimentazione da poco più di un mese su alcuni canali in Sud America, il riposizionamento "verde" di "Discovery" debutterà negli Usa a metà del prossimo inverno 2008. Di Caprio è nel consiglio di amministrazione della nuova società "Planet Green" insieme con 18 leaders di movimenti ambientalisti nei settori dei cambiamenti climatici, scienze ambientali, tecnologia e organizzazioni no profit. Gli altri componenti del CdA di Planet Green provengono da enti come "The Nature Conservancy" e "Natural Resources Defense Council. Gli sponsor saranno integrati nella programmazione con i tradizionali spot ma anche con attività diverse, spiegano a "Planet Green", come convegni e eventi promozionali destinati a richiamare l'attenzione delle società che vogliono essere affiliate nelle iniziative ecologiche. Anche l'attore Robert Redford, durante il MipTv di Cannes a aprile, aveva lanciato il "Green Channel" nell'ambito dell'attività del suo "Sun Dance Channel". L'interesse del mondo dei media americani per il tema dell'ecologia è scattato subito dopo il successo mondiale del documentario di Al Gore "Una verità scomoda" sui cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento del pianeta. Lo sforzo di "Planet Green" sarà quello di indirizzare i comportamenti e le abitudini umane in modo da sostenere l'ambiente e uno sviluppo eco-sostenibile, ha spiegato la O'Neill. Agli inizi del prossimo anno il nuovo marchio entrerà nelle case degli oltre 50 milioni di abbonati americani di Discovery. "Non è mai stato fatto niente del genere su una scala così grande – ha detto la O'Neill -. Ci apprestiamo a dare una definizione di cosa è un media verde". Proprio in questi giorni è partita la prima iniziativa di "Planet Green" per i paesi latino americani e si chiama "Descubre el verde".

mercoledì 15 agosto 2007

Nessuna "Seconda Vita" virtuale. Tocca tenerci quella vera.


di Andrea Piersanti

"Second Life" è un bluff. Nel suo primo tour nel mondo virtuale creato sul web dalla Linden Lab, Michael Donnelly, capo mondiale del marketing interattivo della Coca Cola, ha detto di sentirsi come nell'albergo vuoto del film "Shining" di Stanley Kubrick. Lo racconta il giornalista Frank Rose, in un lungo articolo su "Wired" di agosto intitolato "Come Madison Avenue sta sprecando soldi nel deserto di Second Life".


Il mondo virtuale della "Seconda Vita" è disabitato ma, nonostante ciò, dal 2003 ha attirato milioni di dollari di investimenti pubblicitari, dalla stessa Coca Cola alla Nike. Secondo "Wired", uno delle fonti più autorevoli in fatto di tecnologie, dei nove milioni di iscritti ufficiali, solo 300.000 frequentano ogni tanto il mondo degli "avatar" (la rappresentazione digitale di noi stessi) ma lo fanno per visitare sex shop o discoteche e il sistema non riesce a gestirne più di settanta per volta. Un vero fallimento.


Sui media, invece, l'eterna caccia alla novità aveva gonfiato il fenomeno. Il mondo della pubblicità, preoccupato per la crescente inefficacia del tradizionale spot tv, aveva convinto i propri clienti ad investire nel mondo virtuale di "Second Life". La Reuters vi aveva addirittura aperto una propria agenzia. I costi di questa vita virtuale non sono neanche bassi. Una presentazione sulla piazza digitale costa 10mila dollari e per un'isola attrezzata con grattacieli si può spendere anche mezzo milione di dollari all'anno. Soldi veri, mica finti. Per entrare su" Second Life", infatti, bisogna esibire la propria carta di credito.


La notizia, tutto sommato, è positiva. Alcuni dirigenti delle grandi agenzie pubblicitarie passeranno un brutto quarto d'ora. Ma chi se ne importa. È bello infatti che sia finita l'illusione di potersi costruire una seconda vita di cartapesta digitale. La negazione della realtà è una forma pericolosa di nevrosi che può spesso tradursi in una psicosi vera e propria. La grande quantità di ansiolitici e di antidepressivi che vengono consumati nel mondo sono il sintomo di una gigantesca insoddisfazione collettiva. Ma è bello scoprire che la soluzione non possa essere una finzione.


C'è da rifletterci sopra. In molti avevano dubitato di questa ultima moda tecnologica. "The Guardian" aveva dato voce pubblicamente a queste perplessità già all'inizio dell'anno. Adesso arriva la secca conferma di "Wired". "Second life" non esiste e noi possiamo tirare un sospiro di sollievo. Il bombardamento di informazioni e di stress che ci arriva dal mondo reale è già a livelli di guardia. Ci mancava solo di dover trovare il tempo per un secondo mondo virtuale.


Il vero motivo di sollievo, però, è un altro. L'esplosione del fenomeno di "Second Life" sembrava una sfilata del gay pride. Tutti travestiti con piume di struzzo a rivendicare il diritto ad una vita normale. La vita, quella vera, è già qui. Non c'è bisogno di mascherarsi. È positivo quindi che la "cage aux folles" digitale di "Second Life" non abbia avuto successo. Nella confusione dei generi ci mancava solo il digitale.

venerdì 10 agosto 2007

Nessuno difende il cinema italiano. Per uccidere la tv



di Andrea Piersanti

Non se ne può più. Non passa giorno che non ci sia un proclama contro il cinema italiano. Il più recente è quello dell'attore francese Michel Piccoli. Premiato a Locarno, ha detto: "Ho ricordi di tutto il cinema italiano ed è una tristezza che sia diventato altro". La vera tristezza, però, è data dal silenzio assordante che accompagna queste dichiarazioni. Il regista di culto Quentin Tarantino (quello di "Pulp fiction" e che ora ha deciso di fare un film con Edwige Fenech) ha sempre dichiarato il suo amore per il cinema italiano del passato ma, recentemente, anche lui ha confessato che quello attuale non gli piace per niente.

Polemiche da ombrellone? Neanche per sogno. Il vero obiettivo è un altro. Antico, come la polvere dei salotti della sinistra, il vero obiettivo è ancora lei, la televisione. "È una dittatura dal punto di vista artistico, politico e sociale – ha spiegato Michel Piccoli a Locarno -. Non è importante che vi sia la qualità". Tradito da un momentaneo calo di attenzione, Piccoli ha svelato il mistero. Ecco perché nessuno difende il cinema italiano dai numerosi attacchi mediatici di questa estate cretina (come la definisce la Littizzetto). Perché sperano, in questo modo, di uccidere la tv.
In un paese normale, il ministro della cultura avrebbe dovuto insorgere contro tali attacchi. Ma, mentre Piccoli sputava sul cinema italiano, il ministro Rutelli era a Capalbio a celebrare i primi venti anni dello stabilimento "Ultima spiaggia". "La più brutta spiaggia d'Italia con la gente più bella d'Italia", parola di Barbara Palombelli (modestia a parte). Il cinema italiano da anni viene prodotto e sostenuto dalla televisione. Mediaset, tramite Medusa, e la Rai, prima da sola e ora con Rai Cinema, hanno finanziato opere prime, seconde e i capolavori dei registi più acclamati. Il cinema italiano, inoltre, ora ha ricominciato a tirare anche la carretta degli incassi in sala. Dopo la recente riforma del settore, i nostri film hanno riconquistato fette di mercato che sembravano impossibili. Il pubblico risponde e ci stiamo avviando a celebrare l'autunno dei grandi festival, a Venezia e a Roma. Al Lido, nella Mostra diretta da Marco Muller, il segnale incoraggiante viene dato dalla presenza in concorso di opere di giovani registi italiani.
Ma dall'attuale governo neanche un fiato in difesa del nostro cinema. Come Piccoli involontariamente ha fatto intendere, negando la qualità del cinema italiano si nega la qualità della nostra tv. Quella di Mediaset, perché è di Berlusconi, è ovvio. Quella della Rai, perché la lottizzazione non ha funzionato nel modo dovuto e Viale Mazzini è così diventato il teatro di scontro delle vendette incrociate all'interno della stessa sinistra.
È tutto? Ovviamente no. Sullo sfondo troneggia Murdoch con il suo monopolio satellitare. Grazie al silenzio - assenso dell'attuale governo, i canali cinematografici di Sky spadroneggiano e mille film di Hollywood rimbombano nelle case degli italiani. Com'era bello il cinema italiano, quando non c'era la tv.

venerdì 3 agosto 2007

Professione incompreso




di Andrea Piersanti

Di professione incompreso, Michelangelo Antonioni oggi, nel giorno del suo funerale, è ricordato con l'affetto e le parole di circostanza che si riservano ai maestri. Ma, negli ultimi anni di vita, le cose non erano state facili.
Ne sa qualcosa la moglie Enrica. Chissà a cosa pensa in queste ore. Forse sente di nuovo i fischi che vennero riservati al marito in occasione della proiezione al Lido, nel 1994, del suo film "Al di là delle nuvole". Dopo l'ictus che lo aveva colpito agli inizi degli anni '80, era stato l'amico Wim Wenders ad aiutarlo a tornare dietro la macchina da presa per realizzare un autentico capolavoro. Un film, "Al di là delle nuvole", dove si parla con rispetto e tenerezza anche della vocazione religiosa di una ragazza che resiste alla tentazione di un momento per mantenere il suo voto di fedeltà al Signore.
I critici cinematografici italiani sono così. Superficiali e duri di comprendonio. Antonioni, a Venezia nel '94, venne stroncato senza pietà. Tanto duramente da indurre un altro amico, Bernardo Bertolucci, a prendere carta e penna per difenderlo dall'ondata di stupidità generale che sembrava aver colto la stampa italiana.
Antonioni, prima di girare "Al di là delle nuvole", aveva deciso di sposarsi con rito religioso. Nella cappella privata della chiesa del "Preziosissimo sangue" al Fleming, a pochi passi dalla sua abitazione, si era unito nel sacro vincolo con Enrica. Lo aveva fatto senza clamore, evitando accuratamente l'attenzione dei media. Antonioni ha poi ingannato il tempo dipingendo coloratissimi quadri, con l'unica mano che l'ictus gli aveva risparmiato.
Una mano, splendidamente segnata dall'età, che sarà la protagonista del suo ultimo film, il documentario "Lo sguardo di Michelangelo" prodotto da Lottomatica e da Istituto Luce sulla base di una determinata intuizione di Roberta Lubich. La mano di Antonioni, nel breve film di poco più 15 minuti, esplora le pieghe di marmo del Mosè di Michelangelo, la statua conservata a Roma nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Un documentario dove Antonioni, su consiglio affettuoso della moglie Enrica, accetta, per la prima volta, di recitare davanti alla macchina da presa. Quasi un addio, un testamento spirituale si direbbe con retorica.
La sua mano accarezza dolcemente il marmo freddo della morte che l'arte divina del genio ha reso immortale. Un film dove Antonioni sembra voler gettare il suo "sguardo" verso quella pace infinita che aspetta tutti noi.
Anche in quel caso la stampa italiana non brillò. La Lubich, con la complicità del Luce, riuscì a vendere "Lo sguardo di Michelangelo" alla Warner per farlo concorrere agli Oscar. Durante una serata chic all'Auditorium di Roma, prima della proiezione, i produttori invitarono la stampa italiana a lanciare una campagna di promozione per far in modo che il documentario fosse portato in trionfo alla notte degli Oscar. La stampa italiana, con codazzo di politici e sindaci cinefili, guardò con ostentato rispetto il documentario, si scaraventò sul buffet, si mise in fila per stringere la mano al maestro e, poi, semplicemente, si scordò della sua esistenza. Poche righe frettolose e poi l'oblio.