venerdì 24 giugno 2011

Una distanza giusta


La Home Page del nuovo sito

Cambio sito. Mi sposto su La giusta distanza. Le cose cambiano. I siti anche. Per non parlare delle persone. Ci vediamo .

giovedì 2 giugno 2011

Tatanka: uno schiaffo per i poliziotti


Uno sparo, violento come un’esplosione, assorda le prime immagini sui titoli di testa del film “Tatanka”, opera seconda di Giuseppe Gagliardi. Il film è tratto da un racconto che Roberto Saviano (Gomorra) ha voluto dedicare ad una palestra per boxeur di Marcianise in provincia di Caserta. Le grida delle donne impaurite, un volo di gabbiani in fuga sul mare, una ripresa vertiginosa dall’alto (gli americani la chiamano “occhio di Dio”, “Godeye”) sul molo dove si è consumato l’omicidio. La macchina da presa rimane lontana. Come distaccata dal terreno. L’ammazzato è un poliziotto corrotto, ucciso dai propri corruttori, i camorristi. Il film, che si apre con un forsennato inseguimento fra i vicoli di Marcianise, narra la storia di un atleta che riesce a sfuggire al laccio mortale della camorra campana grazie al proprio talento per il pugilato. Il protagonista principale, Clemente Russo, è un vero pugile campano, poliziotto del club delle Fiamme Oro, campione mondiale di boxe, vicecampione olimpico e di nuovo in allenamento, dopo il film, per partecipare alle prossime Olimpiadi di Londra. La palestra di Marcianise, narrata da Saviano nel suo racconto e riproposta dal film, è la stessa dove il pugile Clemente Russo, ora neo attore, è veramente cresciuto e si è formato. A causa del film però, Russo si è meritato una sospensione di sei mesi dal servizio. “E gli è andata anche bene. I suoi meriti sportivi lo hanno salvato da una punizione ben più severa”, dicono i suoi colleghi. La Polizia di Stato non aveva autorizzato la sua partecipazione al film. Non sono stati resi noti i motivi ma è facile immaginare quanto dovessero essere contenti i superiori di Russo di vedere un collega recitare in un film di questo genere. Ecco cosa succede nella prima mezz’ora del racconto cinematografico. Nella questura dove stanno indagando per scoprire i killer del collega ammazzato sul molo, due poliziotti uccidono un povero ragazzo innocente. Un eccesso di tortura (quella dell’acqua fatta ingurgitare a forza, la stessa, dicono, che sarebbe stata usata a Guantanamo). Per evitare guai lo buttano in mare, come a simulare un annegamento incidentale.  Nella parte rimanente del film, la Polizia di Stato scompare, come se nella lotta quotidiana alla camorra, combattuta per strada e con un alto costo di vite umane proprio fra gli uomini e le donne in divisa, non ci fosse un ruolo per le forze dell’ordine. Gli sceneggiatori che hanno scritto "Tatanka" hanno un curriculum interessante: “Gomorra”, “L’imbalsamatore”, “La doppia ora”. Professionisti, insomma, giovani promesse nel ricambio generazionale del nuovo cinema italiano che sta arrivando. La scena che sembrerebbe aver procurato la sospensione al pugile, quella dei poliziotti torturatori e assassini, non poteva essere eliminata dal film, hanno detto gli autori. “Avrebbe snaturato il senso dell’operazione”, hanno aggiunto. È legittimo quindi domandarsi quale sia il significato di un film che dichiara di essere un atto di accusa contro la criminalità organizzata e che invece se la prende con i tutori dell’ordine, gli unici che ogni giorno combattono veramente mafia, camorra e ndrangheta.  Il Ministero degli Interni in questi mesi sta collezionando una serie impressionante di arresti. I criminali organizzati del Sud non sono mai stati così perseguitati. Sono i poliziotti e i Carabinieri a rischiare la vita per queste operazioni. Come nella strage di Capaci. Come in mille altri agguati meno noti. Si tratta di un elenco lungo e doloroso. Ma per una certa cultura della sinistra, Saviano in testa, la Polizia è sempre da bastonare. Come ai tempi del ’68, nelle rivolte chic di Valle Giulia a Roma. “È triste. Siete in ritardo, figli. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1968. Uno scrittore vero. Diverso da Saviano.

martedì 3 maggio 2011

domenica 1 maggio 2011

Giornalisti a San Pietro il 1 maggio



La situazione sulla terrazza di Carlo Magno 30 minuti prima dell'inizio della cerimonia di Beatificazione di Giovanni Paolo II.

GIGANTE!


La fede. L’umiltà. La preghiera. La gioia. Ecco cosa è successo a Roma nel giorno della beatificazione di Giovanni Paolo II.

La fede. L’umiltà. Gli applausi e le mille bandiere sventolavate al sole. Il silenzio impressionante durante la preghiera. Alla fine, il sorriso stanco ma felice dei due milioni di fedeli accorsi a Roma il 1° maggio per festeggiare la beatificazione di Giovanni Paolo II. “Ma al di là della grandezza di un Papa — e dell’umiltà ancora più grande del suo successore, che con visibile commozione ha ricordato Giovanni Paolo II — a spiegare l’unicità della sua beatificazione è stata soprattutto la dimensione della fede”, ha scritto oggi Gian Maria Vian, il direttore dell’Osservatore Romano. Già, la fede. Lo ha ricordato Benedetto XVI durante l’Omelia della Santa Messa più seguita del decennio. “Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica”, ha detto con la voce rotta da una autentica emozione mentre la piazza esultava. “Un gigante della Fede”, ha aggiunto. Impressionante. Bisognava esserci per capire. Nonostante lo sforzo inedito che i media della Santa Sede hanno messo in campo insieme con la Rai per garantire a tutto il mondo la massima visibilità mediatica dell’evento, la testimonianza migliore dell’unicità del momento viene proprio da coloro che lo hanno vissuto in prima persona. Bisognava vedere, per esempio, le facce dei politici che uscivano dall’Arco della Campane, davanti alla Piazza del Sant’Uffizio, dopo aver reso omaggio alla salma di Giovanni Paolo II alla fine della celebrazione. Tutti sorridenti. Come illuminati da una luce che forse non pensavano neanche di avere. Lo testimonia Barbara Palombelli, fra i mille altri, che ha seguito l’intera celebrazione insieme con il marito Francesco Rutelli. “Mi sono riavvicinata alla fede grazie a questo Papa. Invito coloro che l’avessero persa, a cogliere la seconda opportunità che un Papa gigante come Giovanni Paolo II offre a tutti”, ha detto in una trasmissione televisiva della domenica pomeriggio. Le strade intorno a Piazza San Pietro avevano cominciato a riempirsi fin dalla sera prima. Al termine della veglia di preghiera presieduta dal Cardinale Vicario di Roma, Agostino Vallini, al Circo Massimo, la pressione sugli sbarramenti posti agli ingressi di Via della Conciliazione era diventata fortissima. Nessuno dormiva. Decine e decine di migliaia di persone, di tutte le età, dai più giovani ai più anziani, avevano preso possesso dei Lungotevere intorno al Vaticano, delle stradine di Borgo Pio, di ogni angolo. Cantavano, pregavano e si muovevano già in direzione del grande abbraccio del Colonnato della Piazza di San Pietro. Alla fine la vigilanza ha dovuto cedere e i primi varchi, quelli che permettevano alla folla di avvicinarsi alla Piazza, sono stati aperti con molto anticipo, nel bel mezzo della notte. I duemila giornalisti di tutto il mondo accreditati invece erano stati invitati ad arrivare entro le 5 del mattino. Sono entrati per un pelo negli  spazi di rispetto tenuti aperti a fatica dalle forze dell’ordine e dai mille volontari. Ogni volontario aveva un piccolo lumino azzurro appeso al collo, per essere più facilmente identificabile nell’oscurità della notte. Ma ecco un’immagine che un cronista non può fare a meno di registrare. A metà mattina, durante la celebrazione, una delle ragazze del servizio di volontariato, si piega sul cornicione del terrazzo del Braccio di Carlo Magno dove sono stati sistemati i giornalisti. Ha il volto nascosto fra le braccia. Il corpo è scosso dai singhiozzi. Forti, irrefrenabili. Piange per la commozione. L’evento a Roma è stato così. Un emozione forte, che ti prendeva alla gola. Lo capivi soprattutto dai mille sorrisi delle persone che si accalcavano per entrare in piazza. Non uno spintone, non una parola sbagliata. Solo una gioia incontenibile. Dal terrazzo del Braccio di Carlo Magno, nell’oscurità delle cinque del mattino, il panorama era ineguagliabile. Da una parte, fervevano i preparativi per sistemare l’altare, il trono del Papa, i fiori. Un enorme trattore si muoveva fra le siepi che ornano il sagrato di San Pietro con la delicatezza di una ricamatrice. Dall’altra parte, appena fuori dalla piazza, c'erano i più fortunati e tenaci. Migliaia di fedeli, vocianti ma sereni, che avevano rinunciato a dormire e che erano già pronti, all’apertura dei varchi, a riempire la piazza. I giornalisti, di ogni lingua e di ogni razza, affollavano le strutture attrezzate dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali sulla terrazza. Era  ancora buio e tutti avevano dormito poco o per niente. Ma c’era un’eccitazione palpabile e una adrenalina incontenibile. Il luogo era pieno di gente che si spostava in continuazione, che sistemava telecamere, giganteschi teleobiettivi e computer portatili. Un fermento vivo. Poi alla fine, è arrivata l’alba e, dopo un paio di ore che sono sembrati attimi, è iniziato il rito preparatorio. Alle dieci, puntualissimo, Benedetto XVI è entrato in Piazza sulla papamobile scoperta. Tutti hanno applaudito, anche molti giornalisti. “Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II – ha detto Ratzinger nella sua Omelia -. Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell’intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!”. Alla fine della celebrazione, religiosi e famiglie intere, sacerdoti e militari, politici e semplici fedeli, si sono ritrovati accalcati nel sole nella lunga fila durata ore, per entrare in Basilica a rendere omaggio alla Salma di Giovanni Paolo II. Un prete anziano, in fila, consigliava di non fermarsi al fascino mediatico e spettacolare dell’evento. “Si dovrà cercare di capire cosa significhi tutto questo per le anime dei fedeli”. Il Vangelo della Domenica della Beatificazione di Giovanni Paolo II parlava proprio di questo. In anticipo di duemila anni sulla storia dell’uomo contemporaneo, dell’uomo digitale delle mille forme di comunicazione, Gesù aveva detto: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). “Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede – ha spiegato Benedetto XVI -. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa “Pietro”, la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo”. Un gigante della Fede, così Benedetto XVI ha voluto ricordare Wojtyla. Nel silenzio della piazza assorta per la Liturgia Ecauristica, risuonava forte nelle menti l’invocazione dell’Omelia: “Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto in questa Piazza dal Palazzo! Oggi, ti preghiamo: Santo Padre ci benedica!”.

giovedì 28 aprile 2011

IL GRANDE EQUIVOCO


Comunicatore o testimone di Cristo? Di Giovanni Paolo II non si sono considerati che i “gesti”, obliterando le parole, la dottrina, e mettendo a riposo le generose speranze, dice il Cardinale Mauro Piacenza.


Grande comunicatore o testimone della speranza della Resurrezione? Vittima del sistema dei mass media o protagonista della comunicazione dei valori della vita? Nel fine settimana dedicato a Giovanni Paolo II, è bene tornare ad analizzare una delle caratteristiche del suo Pontificato che più hanno impressionato i media di tutto il mondo: la sua straordinaria capacità di comunicare. Nella vulgata giornalistica, questo carisma derivava direttamente dalle sue passate esperienze teatrali e dall’amore per ogni forma di spettacolo. Al momento della sua morte, quando il Collegio cardinalizio indicò il suo successore, non furono pochi coloro che espressero preoccupazioni per il gap comunicativo che si sarebbe potuto scavare fra un Pontificato e l’altro. A dispetto di questo futile pessimismo, invece la Chiesa continua ad essere vitale ed amata in tutto il mondo. Come e più di prima. Nonostante il diverso carisma comunicativo di Benedetto XVI. E allora? Come si concilia questa realtà con le analisi di coloro che preferirono raccontare l’avventura pastorale di Giovanni Paolo II come se il Papa fosse una rockstar alle prese con paparazzi e telecamere?
“Non c’era trucco nella sua comunicazione. C’era invece la forza dirompente della Buona Novella. Dio ci ha creato per essere felici e santi. Per essere santi e felici. È tutto qui. Ma non è poco. E, soprattutto, non c’è l’ombra di una contraddizione. Santi e felici. Felici e santi”, dice Wanda Poltawaska, una grande amica di Giovanni Paolo II. Per recuperare la giusta prospettiva, è opportuno rileggere anche la severa analisi del Cardinale Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero, pubblicata a suo tempo sull’agenzia Fides diretta da Luca De Mata.
“I grandi media, con gli anni, hanno rimproverato a Giovanni Paolo II, questo Pontefice così cordiale, umanamente simpatico, anticonformista nell’atteggiarsi pubblico, non l’innovatore ma il restauratore. Quasi esistesse, se non doppiezza, una contraddizione fra l’immagine  “moderna” e la dottrina non tanto antica quanto “risaputa”; fra il gesto sorprendente  e le parole, catechistiche. Tra i media è stato ripetuto il luogo comune di un Papa “mai tanto applaudito e così poco obbedito”; non si è persa occasione di far notare come ai “successi” degli eventi pubblici che Giovanni Paolo II ha provocato non sia seguita una risposta profonda nelle masse che attirava. Alla fin fine, nella vulgata corrente, di Giovanni Paolo II non si sono considerati che i “gesti”, obliterando le parole, la dottrina, e mettendo a riposo le generose speranze. Ma sarebbe un equivoco, e assai grave. Sarebbe una sorta di manipolazione. Certo, nel pontificato di Giovanni Paolo II v’è stata un’impressionante, e grandiosa, dimensione pubblica della fede; ma vorrei ricordare che essa nasce non da un senso spiccato per “l’evento mediatico”, ma dalla sofferta esperienza, direi dalle lotte di Karol Wojtyla sacerdote, vescovo, cardinale di Cracovia”. Un altro aspetto da riconsiderare è quello della novità che l’attività pastorale di Wojtyla avrebbe impresso alla macchina della comunicazione della Santa Sede. Secondo uno che di comunicazione se ne intende, il giornalista Bruno Vespa: “probabilmente, anche sotto l’aspetto comunicativo, non ci sarebbe stato Giovanni Paolo II se non ci fosse stato Giovanni Paolo I, il primo Papa ad usare la prima persona singolare, e Paolo VI, e Giovanni XXIII, che invitò i fedeli a portare la sua carezza ai figli, e Pio XII, uscito dal Vaticano per andare a consolare i romani martoriati dai bombardamenti”. Una dimensione storica tanto più attuale oggi, in una fase in cui si tende ad avere memoria breve e a farsi impressionare dall’evento dell’oggi, a scordare ciò che è successo appena ieri e a sottovalutare il domani. Ma quale lezione ha lasciato Giovanni Paolo II agli operatori della comunicazione sociale? “Il  Santo Padre teneva moltissimo alla famiglia come fonte della felicità e della santità dell’uomo – ricorda la Poltawaska -. La persona umana è stata creata per la salvezza e la pienezza del bene. È solo questo il segreto della forza travolgente della sua comunicazione. Lui ama veramente il prossimo. Ogni persona è trattata dal Santo Padre come una persona speciale. Questa sua attitudine verso il prossimo è quella che, alla fine, i mass media non hanno potuto fare a meno di registrare. Giovanni Paolo II non dava importanza ai mass media se non in quanto mezzi che gli permettevano di raggiungere le singole persone, il singolo figlio di Dio. Ma questo è anche ciò che il Santo Padre rimprovera ai giornalisti. Nell’ultima processione del Corpus Domini da lui presieduta a Cracovia prima di diventare Papa, all’ultima stazione accusò i giornalisti di non collaborare al processo di evangelizzazione. Lo scandalismo e il catastrofismo contribuiscono a creare nel pubblico un clima di sfiducia verso il proprio avvenire. Un sentimento negativo che è contrario allo spirito di speranza che invece è tipico della Buona Novella del Nuovo Testamento. “La verità è sempre umile”, diceva. Voleva ricordarci che si deve imparare a parlare con Dio. Fermiamoci, ci diceva, Dio parla in silenzio. Il Santo Padre era una persona di una fede così profonda che è difficile da immaginare. Se oggi viene ancora ricordato come  un grande comunicatore è perché aveva così tanto da comunicare. A tutti”.

mercoledì 27 aprile 2011

LA VERITA' E' SEMPRE UMILE

Wanda Poltawska, la grande amica di Giovanni Paolo II:
“La verità è sempre umile, diceva”
“Rimane la forza religiosa del suo sguardo”.
“Ha sempre avuto l’idea di avere tante persone da amare e così poco tempo per farlo”.



“Ho frequentato il Santo Padre per più di cinquant’anni”.
Wanda Poltawska, 90 anni, ha uno sguardo intenso. È stata una grande amica di Karol Wojtyla e ha lavorato a lungo con lui in Polonia, prima che diventasse Papa.
“Sono una psichiatra e, come medico, ho collaborato con convinzione ai tanti centri di ascolto per giovani coppie della diocesi di Cracovia che lui aveva allestito. L’ho ascoltato ogni giorno, da allora. Lui ha sempre voluto, prima di tutto, salvare la santità dell’amore umano. Ha sempre voluto mostrare il progetto d’amore di Dio per l’uomo. Il Santo Padre ne è sempre stato sicuro in tutti questi anni: Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la santità”.




Come nasce il carisma di Wojtyla?
“Il primo libro del giovane Karol Wojtyla era dedicato al tema dell’amore e della responsabilità”.
Si tratta di “Strade d’amore”, pubblicato in Italia, per la prima volta nel 2002.
“Descrisse in quelle pagine la grandiosità e l’infinita generosità del progetto di Dio. Nel suo secondo libro si occupò invece di chi deve avere e di chi deve dare quell’amore. Sono i figli di Dio. Noi siamo tutti figli di Dio.  È questo il motivo per il quale il Santo Padre era così interessato alla difesa della vita umana. Una volta mi disse che tutti i problemi si possono risolvere pensando alla genealogia divina. Siamo tutti figli di Dio. Il Santo Padre credeva veramente che ognuno di noi sia figlio di Dio. Non una creatura di Dio, come gli animali, ma un vero e proprio figlio di Dio che, quindi, è erede ed è amato come solo un figlio può essere amato. Il Santo Padre voleva che la gente capisse e credesse in questo perché un tale concetto della persona umana implica il dovere di vivere in un modo speciale. Si è figli di Dio e, come dicono i francesi, noblesse oblige”.



Perché tutti rimanevano colpiti dal suo sguardo?
“Quando si era insieme con il Santo Padre si provava una profonda commozione perché ci si sentiva guardati e capiti. Nell’intimo. Lo sguardo del Santo Padre era quello di una persona che era in grado di vedere le tracce genealogiche della nostra ascendenza divina. Era questo che guardava. Era questo che amava in noi. Il mio lavoro di psichiatra ebbe una svolta quando Mons. Wojtyla mi fece riflettere su questa verità. Questo infatti è ciò che veramente può aiutare la gente. Il Santo Padre era convinto che la persona umana sia sempre in fieri e che, quindi, possa svilupparsi per compiere quel progetto di felicità e di santità che Dio ha creato per tutti i suoi figli”.
Giovanni Paolo II si è sempre interessato alla famiglia. In un epoca di confusione sul tema, questa sua determinazione fa ancora più impressione.
Lo sviluppo di un individuo nasce nella propria famiglia. Se i genitori indirizzano male questo sviluppo, l’uomo passa poi il resto della vita nell’infelicità e nel tentativo di raddrizzare ciò che è stato fatto storto. Il  Santo Padre teneva moltissimo alla famiglia come fonte della felicità e della santità dell’uomo. La persona umana è stata creata per la salvezza e la pienezza del bene”.
Di lui hanno detto che è stato un grande comunicatore.
“Non c’era trucco nella sua comunicazione. C’era invece la forza dirompente della Buona Novella. Dio ci ha creato per essere felici e santi. Per essere santi e felici. È tutto qui. Ma non è poco. E, soprattutto, non c’è l’ombra di una contraddizione. Santi e felici. Felici e santi. Era solo questo il segreto della forza travolgente della sua comunicazione. Lui amava veramente il prossimo. Ogni persona è stata trattata dal Santo Padre come una persona speciale. Questa sua attitudine verso il prossimo era quella che, alla fine, i mass media non hanno potuto fare a meno di registrare. Il suo rispetto per il prossimo è sempre stata la molla di tutti gli incontri che ebbe da vescovo e, dopo, da Papa a Roma. Si parla tanto di mezzi di comunicazione di massa ma ci si sofferma poco sul fatto che l’arma di comunicazione più forte della Chiesa contemporanea sia ancora quella di duemila anni fa: l’omelia. Il contatto diretto con il prossimo e la forza della parola. Sono stati questi gli strumenti vincenti della comunicazione di Giovanni Paolo II. E lo saranno sempre di più per la Chiesa del Terzo Millennio”.
Il suo rapporto con i mass media?
“Il Papa non è stato ripreso dai mass media, non ha avuto un atteggiamento passivo nei confronti di telecamere e microfoni. Sapendo benissimo cosa dire, e perché, è stato lui ad usare i mezzi della comunicazione per raggiungere il prossimo in ogni angolo del mondo”.
Una comunicazione fortemente caratterizzata dal fatto religioso.
“La dimensione globale della comunicazione del suo pontificato ha avuto un significato teologico ed era riconducibile alla vocazione missionaria della Chiesa. Il Santo Padre ha sempre rivolto il suo messaggio a tutti, credenti e non, cattolici e non. Siamo tutti figli di Dio, ha sempre detto Giovanni Paolo II. Tutti, anche i non battezzati in Cristo”.
Come agiva Wojtyla in Polonia, sotto il comunismo?
“Era impossibile organizzare incontri di massa. Per questo motivo le occasioni di udienza con il Vescovo erano costruite in luoghi diversi dal vescovato ed erano dedicate di volta in volta a gruppi professionali diversi fra di loro: medici, architetti, giornalisti, ecc. Ognuno di questi incontri era preparato con cura per sfruttare nel migliore dei modi il poco tempo a disposizione. Una o due persone preparavano delle schede che il vescovo leggeva con scrupolo. Al momento dell’incontro quindi scattava sempre la molla della sorpresa: i professionisti erano sempre interpellati nello specifico della loro attività”.
Che tipo di Vescovo era Wojtyla?
“Il Santo Padre, anche quando era vescovo, ha sempre evitato l’errore di un insegnamento calato dall’alto. Al contrario, entrando in contatto con la realtà, ha sempre trovato il modo per una comunicazione diretta con i suoi interlocutori. È il metodo che poi ha usato anche a Roma e nei suoi viaggi. È sempre stato lui a scendere in mezzo alla gente e non ha mai aspettato che fossero gli altri a salire da lui. È il motivo per cui ha fatto tanti viaggi. Era lo stesso anche in Polonia. Ha sempre avuto l’idea di avere tante persone da amare e così poco tempo per farlo. Quando era vescovo, gli capitava spesso di presiedere la celebrazione eucaristica in tre città molto distanti fra di loro. Durante il viaggio, poi, ne approfittava per scrivere e per leggere”.
Come faceva a vedere tante persone? La sua agenda è sempre stata frenetica e convulsa.
“Le persone che vedeva erano sempre molto diverse fra di loro. Dalle suore di Madre Teresa ai diplomatici dei paesi arabi. Lui, prima di ogni incontro, pregava  per la persona che stava per incontrare. Lo faceva sempre. Ogni volta. Quando poi si aprivano le porte e i visitatori entravano al suo cospetto, scattava subito la molla del contatto. È questo uno dei motivi dello straordinario carisma che si respirava anche durante gli incontri di massa, soprattutto con i giovani. Il Santo Padre, anche nelle assolate pianure piene di centinaia di migliaia di persone, cercava sempre il contatto con la singola persona. Anche quando aveva di fronte un milione di persone, parlava sempre in modo che ogni singolo sentisse quelle parole come dirette a lui personalmente, a lui come persone umana e figlio di Dio. È un sentimento di amore verso il fratello che la gente riusciva a percepire e che provocava commozione. Stava in questo atteggiamento la genialità nell’uso dei mass media.  Giovanni Paolo II non dava importanza ai mass media se non in quanto mezzi che gli permettevano di raggiungere le singole persone, il singolo figlio di Dio”.
Nell’ultima processione del Corpus Domini da lui presieduta a Cracovia prima di diventare Papa, all’ultima stazione accusò i giornalisti di non collaborare al processo di evangelizzazione.
“Lo scandalismo e il catastrofismo contribuiscono a creare nel pubblico un clima di sfiducia verso il proprio avvenire. Un sentimento negativo che è contrario allo spirito di speranza che invece è tipico della Buona Novella del Nuovo Testamento”.
Ricorda la prima volta che lo incontrò dopo la sua elezione al Soglio Pontificio?
“Quando andai a Roma la prima volta ebbi una fortissima impressione. Dissi a mio marito che sembrava una farfalla che aveva finalmente compiuto il proprio processo di sviluppo e che poteva finalmente volare. Da allora non ha mai smesso di volare. Per annunciare la nostra felicità e per indicarci la strada per la santità. Ma nonostante la bellezza del suo volo, non abbiamo mai smesso di sentirlo vicino in tutti questi anni. “La verità è sempre umile”, diceva. Voleva ricordarci che si deve imparare a parlare con Dio. Fermiamoci, ci diceva, Dio parla in silenzio. Il Santo Padre era una persona di una fede così profonda che è difficile da immaginare. Se ancora oggi viene considerato un grande comunicatore è perché aveva così tanto da comunicare. A tutti”.