martedì 23 dicembre 2008

Auguri!

Con l'augurio che ognuno possa stare accanto a chi ama (e a chi non ama!). Buon Natale!

domenica 21 dicembre 2008

domenica 23 novembre 2008

domenica 26 ottobre 2008

Wall-E baseball con Eve

Le donne della Disney


Sono cambiate anche le donne della Disney. Meno oche e più materne, hanno conquistato oggi una posizione inedita nella fabbrica dell’immaginario di Hollywood. Nel nuovo mega-film d’animazione della Disney – Pixar, “Wall-E”, il personaggio femminile (è un robot, ma non fa niente) si chiama Eve. Ha le linee rotonde e candide di un oggetto disegnato dalla Apple (hanno notato alcuni maligni blogger americani) e porta dentro il suo ventre il seme della vita. Il personaggio maschile del film invece è proprio il Wall-E del titolo. Uno spazzino (un robot anche lui, ma non fa niente) lasciato sulla terra superinquinata e coperta di immondizia a raccogliere rifiuti, pressarli in cubi di metallo e metterli in ordine in vertiginose torri alte come i grattacieli di New York. Quando i due si incontrano scoppia l’amore. La trama è semplice e sarebbe stupido rovinare la sorpresa a chi vorrà portare i propri figli a vedere questo delizioso e poetico cartone animato. Rimane da riflettere sull’immagine della donna e della famiglia che alla nuova Disney conquistata dalla Pixar di John Lasseter vogliono trasmettere alle sterminate platee di tutto il mondo che andranno a vedere il film. Negli Usa intanto “Wall-E” è già un caso e spopolano i siti e i blog di fan dei due teneri personaggi robotici e antropomorfici.
La nuova donna, Eve, non solo è bella e perfetta ma ha anche il tempo per innamorarsi, per salvare il mondo e, visto che c’è, per restituire la vita al suo fidanzato. Una rivoluzione assoluta nell’immaginario cinematografico di Hollywood. Alla figura maschile invece è lasciato il compito di trovare lo spazio per la poesia e per la bellezza in un mondo che ricorda le desolate immagini che, prima dell’estate, ci arrivavano con i telegiornali dalle strade di Napoli e dintorni. Un mondo senza più vita, coperto di rifiuti, in attesa che l’umanità in crociera su una gigantesca astronave torni a popolarla. Tocca quindi a questi due cibernetici Adamo ed Eva il compito di restituire all’uomo il posto che gli spetta. Fa impressione pensare all’evoluzione delle donne della Disney. Ai tempi del suo fondatore, Cenerentola poteva sperare solo di sposare, un giorno, un bel principe azzurro. Nel frattempo le toccava spazzare e soffrire ingiustizie mentre matrigna e sorellastre passavano il tempo davanti allo specchio a ordire trame banali. La Bella Addormentata ovviamente dormiva (la summa del non ruolo). Anche a Biancaneve non toccava una sorta migliore, nella teca di cristallo dove, dormiente anche lei, aspettava di essere risvegliata. Le cose non sono andate meglio negli anni successivi. Adesso però, con Eve, c’è un’evoluzione dell’immagine femminile che fa riflettere. Nel Vecchio Testamento alla Eva biblica tocca un compito non facile: ricordarci il peso della nostra difettosa umanità di peccatori. Altra prospettiva invece la nuova Disney – Pixar attribuisce a questa Eve di un futuro non tanto lontano. A lei, tutt’altro che dormiente, toccherà restituire il soffio della vita all’umanità intera. Non solo difendendo una simbolica piantina nel cavo accogliente del suo ventre, ma agendo dinamicamente, come in un action movie, per fare in modo che alla fine nasca un nuovo umanesimo.
Come in tutti i cartoni animati che Hollywood ci ha proposto in questi anni, la prospettiva religiosa è del tutto assente. Ma alcuni stimoli subliminali fanno riflettere. Wall-E, a modo suo, ama e cerca la bellezza. Si commuove ad osservare le stelle. Eve, e gli altri robot ribelli, disobbediscono agli ordini alla luce di una morale più alta. Unica e non relativa: la salvezza della vita.
Dalla sala gli spettatori escono esprimendo giudizi positivi con aggettivi che vanno da “poetico” a “emozionante”. Anche il country manager italiano di Disney – Pixar, Paul Zonderland, introducendo il film ad una piccola platea di addetti ai lavori durante un’anteprima romana, ha detto che “Wall-E è il più bel film che abbiamo mai prodotto”. Sentimenti che si possono giustificare solo andando a fondo nell’esame della sceneggiatura di questo cartone animato. Viviamo in un’epoca contrassegnata da quella che il Cardinale Bagnasco ha definito correttamente “la pedagogia della disperazione”. Il sistema dei mass media enfatizza ogni singolo dramma della cronaca nera e i sociologi sono concordi nel ritenere che l’ansia sia ormai la malattia endemica del secolo. L’incertezza circa il proprio futuro viene compensata da un consumismo sempre più compulsivo. Gli oggetti da acquistare non sono più semplici status symbol ma diventano vere e proprie mete necessarie e ineludibili per le quali si è pronti a tutto (è di solo pochi giorni fa la notizia di una adolescente che si prostituiva per permettere al fidanzato di comprare abiti griffati). Nel frattempo i governi cercano di placare l’ansia collettiva con sistemi di controllo sempre più complessi e sofisticati. Ma "La paura viene generata anche dalle tecnologie che dovrebbero ridurla", ha detto il sociologo David Lyon. "Noi parliamo di tenologie per la sicurezza ma si tratta di tecnologie dell'insicurezza. Negli aereoporti canadesi (secondo alcuni dati ufficiali) alcune persone sono state colte da malore e una è morta a causa dell'agitazione e della paura dei controlli, nonostante non fossero accusate di terrorismo e non nascondessero proprio nulla", dice Lyon. "Viviamo nell'era del sospetto. Una volta contava chi eri e cosa sapevi fare. Oggi la regola è: cosa sappiamo di te? Non sapendo mai abbastanza, l'ansia cresce". Un vero e proprio Stato impiccione di cui ha scritto anche Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. “Dicono i giuristi riuniti a Piacenza per il festival del Diritto che la nuova tecno-sorveglianza asfissiante e pervasiva porterà al “suicidio” della società – ha scritto Battista -. Ma intanto, prima che la società tiri le cuoia, è l’individuo il più esposto al pericolo d’estinzione. La “libertà dei moderni”, sosteneva Benjamin Constant, si identifica con lo spazio vitale e privato che gli individui riescono a sottrarre all’invadenza degli apparati statali, ai tentacoli di una collettività intrusiva, alle interferenze dello sguardo pubblico. Ma l’invocazione di Constant rischia di apparire oramai come una supplica disperata e impotente. La tutela della privatezza viene sacrificata sull’altare della sicurezza. La protezione di una dimensione libera perché affrancata dal dominio totalitario del controllo di Stato è cancellata dall’ambigua ideologia dell’assoluta “trasparenza””.
È la stessa condizione nella quale, nel film della Disney, vivono i resti dell’umanità in crociera nello spazio in attesa che la piccola Eve restituisca loro una prospettiva antropologica più coerente. Sono ipercoccolati dalla tecnologia che si occupa di loro fino nei minimi dettagli ma sono diventati grassi, non sanno più camminare con le proprie gambe e hanno perso il contatto con il prossimo. Parlano solo con le macchine. “Lo sposalizio tra Stato e tecnoscienza produce un “mostro freddo” ancora più spaventoso di quello descritto da Max Weber. Un mostro freddo e una corte di mostriciattoli”, ha detto Battista. Deve essere questa la vera molla che fa scattare il fascino per il film della Disney. In un mondo freddo e coperto con i rifiuti delle nostre divinità tecnologiche, potremo ritrovare dignità e bellezza solo seguendo il cuore. Solo cercando la bellezza. Difficile dire se il film scatenerà le proteste dei broabortisti e dei nemici di ogni forma di religione. Ma vedendo questo cartone animato inevitabilmente il pensiero corre al Salmo che recita “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode” (Salmo 127, Is). È quello che ci sta capitando all’alba di questo terzo millennio. Incapsulati in una società ipertecnologica, ma non per questo tranquillizzante, guardiamo al nostro futuro con ansia o, peggio, con indifferenza. La piccola robottina Eve invece costringe i nostri cuori a riaprire gli occhi. Ci costringe a ripensare all’intera nostra vita con una luce di speranza che pensavamo di avere perduto. Giovanni Paolo II, aveva scritto nelle prime righe della sua bellissima enciclica “Tertio Millennio Adveniente”: “Mentre ormai s'avvicina il terzo millennio della nuova era, il pensiero va spontaneamente alle parole dell'apostolo Paolo: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna » (Gal 4, 4)”.
Non sembri esagerato. I continui richiami al culto mariano che in questi anni sono venuti dal Magistero hanno miracolosamente trovato uno spazio inedito e inaspettato all’interno di un cartone animato. Il sorriso che gli spettatori hanno sulle labbra alla fine del film ricorda vagamente, a chi voglia coglierlo, quella luce di speranza che centinaia di migliaia di fedeli hanno negli occhi quando si recano in pellegrinaggio nei luoghi del culto Mariano, da Lourdes a Medjugorje. Lo sapeva bene Giovanni Paolo II che così chiudeva la “Tertio Millennio Adveniente”: “Affido questo impegno di tutta la Chiesa alla celeste intercessione di Maria, Madre del Redentore. Ella, la Madre del bell'amore, sarà per i cristiani incamminati verso il grande Giubileo del terzo millennio la Stella che ne guida con sicurezza i passi incontro al Signore. L'umile Fanciulla di Nazaret, che duemila anni fa offerse al mondo il Verbo incarnato, orienti l'umanità del nuovo millennio verso Colui che è « la luce vera, quella che illumina ogni uomo » (Gv 1, 9)”.
Non sappiamo quale luce abbia illuminato la mente e il cuore degli uomini della Disney che hanno scritto e disegnato questo nuovo film. Sappiamo però che l’emozione che corre sullo schermo non si potrebbe spiegare in altro modo. “La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia”, ha detto Benedetto XVI a Lourdes. Davanti alla spianata piena di decine di migliaia di fedeli, il Santo Padre ha detto: “"A tutti gli uomini di buona volontà che mi ascoltano io ridico con San Paolo: Fuggite il culto degli idoli, non smettete di fare il bene. Il denaro, la sete dell'avere, del potere e persino del sapere, non hanno forse distolto l'uomo dal suo Fine, vero?".

venerdì 24 ottobre 2008

domenica 19 ottobre 2008

Il passato non è una terra straniera


La conclusione è che in Italia non siamo capaci di fare i conti con il nostro passato. In questi mesi il dibattito è esploso con violenza. Soprattutto in campo cinematografico, ma non solo. A partire dal caso più recente, il film su "La banda Baader Meinhof". "I tedeschi fanno l'autocritica con il loro passato – ha scritto Giacomo Ferrari su "Libero" -. Noi invece no". Ci sono state però anche le proteste per il film di Spike Lee "Miracolo a Sant'Anna" sulla strage di civili nella piccola località di Stazzema nella Garfagnana. L'Associazione dei partigiani ha accusato il regista di aver osato indicare le responsabilità della resistenza in quell'eccidio dimenticato. "L'Italia deve fare ancora un grande esame di coscienza: sulla sua storia ed in particolare sulla seconda Guerra mondiale – ha detto Spike Lee a Giovanni Minoli -. Per me tutte queste polemiche evidenziano solo una cosa: che le ferite che l'Italia ha ricevuto in seguito alla guerra civile, alla seconda guerra mondiale, non si sono ancora rimarginate. Sono ferite ancora aperte».
Ferite aperte e difficili da chiudere come le polemiche sul film "Il sangue dei vinti" tratto dal romanzo di Giampaolo Pansa. "Una vera porcheria revisionista", secondo il giudizio di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista. Neanche con la Grande Guerra, adesso che ne ricorre il novantesimo anniversario, è possibile sottrarsi al fuoco del dibattito. "La canzone del Piave è razzista", hanno detto alcuni esponenti del centro sinistra costringendo anche l'ex presidente Ciampi a intervenire per cercare di smussare i toni. Per non parlare poi del dibattito su fascismo e antifascismo scatenato dalle dichiarazioni di Alemanno che ha finito per coinvolgere le più alte cariche dello Stato e che si è trascinato per intere settimane.
La storia contemporanea disturba la politica ma affascina il pubblico. Al Festival di Roma il sondaggio degli spettatori, fra i tanti film proposti, alla fine ha premiato con il Marc'Aurelio d'Oro "Resolution 819" di Giacomo Battiato, sulla strage di Srebrenica in Bosnia, una pellicola che non ha ancora trovato un distributore italiano.
Sorprende, però, che le tante polemiche a sfondo storico si siano tramutate ancora una volta in altrettante occasioni mancate di comprensione della nostra storia recente. "Il dibattito su fascismo-antifascismo per esempio svela ancora oggi i limiti, tutti italiani, di un'analisi sull'esito del '900 che è molto più complessa", dice Giampaolo Rossi, Presidente di RaiNet e membro del "Forum delle idee", conciliabolo di intellettuali istituito dal leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini. "La politica italiana – spiega Rossi - stenta a capire che non ci si può limitare ad una polemica ideologica o al tentativo a volte strumentale di ricostruire una memoria storica lacerata da una guerra civile mai risolta. Bisogna ripensare l'intera eredità del XX secolo per poter pensare il XXI. E se oggi in Italia i politici si mettono a fare gli storici, è perché per troppo tempo gli storici hanno fatto i politici, piegando la storiografia ai condizionamenti ideologici; responsabilità dei politici quindi, ma ancora di più degli intellettuali. Che strano gioco di memoria è quello di usare categorie teologiche come "male assoluto" per la nostra storia recente e relativizzare invece la storia europea, accettando di rimuoverne le radici cristiane?".
L'analisi del fallimento del Novecento porta ad interrogarsi sulla necessità di restituire speranza all'uomo del terzo millennio. Ma se si avanza l'ipotesi di costruire un nuovo umanesimo che rimetta al centro del dibattito politico e culturale un nuovo patto fra società e individuo, si viene derisi.
"Il XX secolo è stato il tempo delle utopie realizzate nelle ideologie che hanno segnato nell'orrore la nostra storia – dice Giampaolo Rossi -. Come può essere accaduta una così grandiosa smentita dei presupposti moderni, razionali e progressisti sui quali il '900 aveva iniziato la sua corsa? La grande politica dovrebbe iniziare a interrogarsi sull'esito complessivo di un secolo terrificante".
Questa sorta di miopia storica ha trovato, recentemente, un titolo emblematico: "Il passato è una terra straniera", un romanzo di Gianrico Carofiglio, premio Bancarella nel 2005, tradotto in un film che è stato proposto in concorso al Festival del cinema di Roma. Diretto da Daniele Vicari racconta l'eterna tragedia dell'uomo che non riesce a perdonare sè stesso.
"Per passato s'intende qui l'angoscia esistenziale di molti giovani, trascinati anche loro malgrado verso un abisso di cui non si conosce il punto di caduta, ma il cui punto d'arrivo è chiaramente visibile", ha scritto una fan di Carofiglio in uno dei tanti blog della rete. "Una discesa agli inferi, certo, ma vissuta con una specie di stupore soffocato, con una lucidità dolorosa ma assurdamente inconsapevole, cui non si può fare a meno di partecipare con trepidazione", le ha fatto eco un'altra blogger. Il titolo, spiega lo stesso Carofiglio, è la citazione delle parole di un romanzo di Hartley. ""Il passato è una terra straniera, le cose accadono in modo diverso da qua". Si tratta esattamente del senso racchiuso nella storia che ho voluto raccontare", ha detto lo scrittore.
"Ma il passato non è una terra straniera – dice Giampaolo Rossi -. In ballo c'è il concetto stesso di memoria, oggi tanto più attuale proprio perché la grande rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo tende ad appiattire il senso del divenire storico. Immersi in una rete informazionale che condiziona sempre più la nostra vita quotidiana tendiamo a vivere in un eterno presente in cui conoscenza ed informazione diventano una continua attualità. E ripensare al XX secolo significa ripensare anche al rischio di una tecnica che svincolata dai bisogni dell'uomo, si è dimostrata potenza livellatrice e nucleo ultimo del nichilismo".
Giovanni Paolo II, nella Fides et Ratio, diceva: "Questo nichilismo trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza, l'ottimismo razionalista che vedeva nella storia l'avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione".
La caratteristica essenziale dell'età moderna rimane il suo carattere plurale, multiforme, contraddittorio, del quale ogni cultura deve tener conto. Ma niente avrebbe senso se non ci ricordassimo che il primo dovere della politica è proprio quello di combattere la tentazione della disperazione, per dirla con Giovanni Paolo II, che il Novecento ci ha pesantemente lasciato in eredità. Lo ha detto recentemente anche il Cardinale Bagnasco: "L'Italia troppo spesso è raccontata attraverso una sorta di pedagogia della catastrofe che non corrisponde alla realtà".
Tentazione della disperazione, da una parte, e rimozione della memoria, dall'altra. "Una grande politica non deve limitarsi a usare la memoria ma a riconoscere che la memoria è spazio di libertà – dice Giampaolo Rossi -. Penso ad una politica che assuma su di sé la prospettiva di un nuovo umanesimo, in cui l'uomo non sia misura di se stesso (come nell'umanesimo ateo che pretendeva di fondare l'uomo nuovo, positivo, emancipato,) ma inserito in una dimensione di identità e memoria capace di dare senso alle sfide della modernità, attraverso il tema della libertà e dei nuovi diritti".

domenica 14 settembre 2008

domenica 7 settembre 2008

Solzenicyn, vivere senza menzogna


di Adriano dell'Asta

«Il disturbatore di Zurigo», così qualcuno aveva definito Solženicyn nel 1974, subito dopo la sua espulsione dall’Unione Sovietica, quando il grande scrittore si era momentaneamente stabilito in Svizzera, ed era ormai evidente che non sarebbe stato possibile farne un semplice strumento di lotta politica o, come si diceva allora, della guerra fredda. Solženicyn restava un critico inesorabile del comunismo, ma non era meno critico di un Occidente sempre più pago del proprio benessere e sempre più disperato: in una sorta di paradossale par condicio, che però non era affatto una banale equidistanza, denunciava le parentele inaspettate tra il «bazar del partito» e la «fiera del commercio»; e quindi disturbava. «Il disturbatore di Zurigo»; quella definizione aveva una sua logica inoppugnabile: Solženicyn disturbava i piani di una politica che per spartirsi il dominio del mondo era disposta a transigere su questioni come quella dei diritti umani o della libertà. Ma soprattutto disturbava e sconcertava in un periodo in cui si diceva che «tutto è politica», in un periodo in cui non si riusciva a concepire un’affermazione dell’uomo che non passasse attraverso una sanzione ideologica: si pensava (allora, ma qualcuno continua a pensarlo anche oggi) che, se l’ideologia comunista aveva distrutto il vecchio uomo, l’unica possibilità di ricostruirne il volto fosse quella di trovare un’ideologia più ricca, che magari aggiungesse alle giuste rivendicazioni sociali del marxismo un altrettanto giusto spazio per la dimensione spirituale dell’uomo. Si pensava, in fondo, che l’ideologia era buona e che era stata soltanto applicata male o che, al massimo, fosse degna soltanto di qualche correzione più o meno radicale; e si pensava che questo fosse il massimo della genialità dell’Occidente, capace persino di correggere e di portare finalmente a compimento l’ideale e il sogno più bello che l’uomo avesse saputo concepire, quello di una società perfetta. L’unico problema era che Solženicyn usciva da questo sogno e ne mostrava i tratti da incubo. L’incubo col quale disturbava la quieta coscienza occidentale era quello del principio ideologico in quanto tale; la sua non era un’equidistanza perché il suo non era un discorso politico con la rivelazione di una nuova ideologia: «Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta di trovarvi una rivelazione politica. Se fosse così semplice! se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno», dice Solženicyn nell’Arcipalgo Gulag,la sua opera apparentemente più politica. Ma il punto è che il male non era in questa o in quella ideologia, nell’ideologia dei neri o dei rossi contrapposta a quella dei bianchi, nell’ideologia del diavolo contrapposta a quella del santo; il male era nell’ideologia in quanto tale, era che si potesse pensare che c’era un’idea in nome della quale si era autorizzati a eliminare qualche uomo. Il male era che ci fosse una teoria, sociale, razziale, religiosa (ciascuno può aggiungere l’aggettivo che crede) che pretende di giustificare il male che si compie in nome della futura società perfetta e in questo modo dà «la duratura fermezza occorrente al malvagio». Il male era ed è che ci sia un’ideologia che, mentre facciamo il male, permette di «giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi». Quella di Solženicyn non era un’equidistanza, perché il grande scrittore sapeva ovviamente distinguere tra le responsabilità di chi aveva ucciso milioni di uomini e quelle di un Occidente che aveva chiuso gli occhi di fronte a queste tragedie, sperando di poter emendare i malvagi; ma proprio perché sapeva questo (e, sapendolo, si rivolgeva all’Occidente per invitarlo a destarsi dal suo torpore e a combattere l’ideologia) Solženicyn disturbava ancora di più, perché usciva da questa dialettica da padroni del mondo e denunciava, per usare l’espressione di un altro grande russo, che «l’ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo»: magari, come per l’Occidente, un nichilismo delicato e ancora sensibile alle complessità della vita, ma non per questo meno condannato a soccombere di fronte al nichilismo scatenato delle ideologie totalitarie. Per far fronte al totalitarismo occorreva uscire da questa dialettica del primato dell’idea e ritrovare il principio di realtà, ritrovare la verità del reale e nel reale, non come qualcosa che l’uomo deve immettervi a forza, facendo violenza a ciò che esiste, ma come qualcosa che è dentro il reale: non fatto da mano d’uomo. E Solženicyn è uscito da questa dialettica non attraverso un nuovo discorso, ma proprio riscoprendo la realtà non fatta da mano d’uomo: tali sono i suoi personaggi artistici. La sua è stata un’uscita ancora più decisa e netta dalla dialettica delle ideologie proprio perché realizzata attraverso la forma artistica, le immagini, le figure, le forme architettoniche date ai suoi romanzi, dove quello che cattura sono questi esseri che si trovano vincitori esattamente nel momento della sconfitta o della fine di tutte le loro forze umane; valga per tutti l’esempio di Matriona, la stupida vecchia che dopo la morte viene scoperta essere in realtà «il Giusto, senza il quale non vive il villaggio, né la città, né tutta la terra nostra». È questa sfida, di un uomo che vince ogni potere perché non fatto da mano d’uomo, che Solženicyn ci ha lasciato attraverso le sue opere letterarie, cioè, non attraverso un discorso teorico, ma attraverso la bellezza, che è la verità del reale, lo splendore del vero.

“Non muoio neanche se mi ammazzano”


Alla Mostra del Cinema di Venezia hanno proiettato "La rabbia" di Pasolini e Guareschi ma, per far posto a frammenti inediti di Pasolini, hanno tagliato le scene firmate da Guareschi. E' successo il finimondo: sono volati gli stracci e le polemiche hanno inondato i giornali. Solo pochi giorni prima, al Meeting di Rimini, centinaia di migliaia di persone avevano fatto la fila per vedere la mostra che il popolo di Cielle ha voluto dedicare a Guareschi, in occasione del centenario della sua nascita. Il titolo? "Non muoio neanche se mi ammazzano". Di seguito vi propongo il testo di presentazione della mostra. (a.p.)

Dal catologo del Meeting di Rimini


Cento anni fa, nella Bassa Parmense, il I maggio del 1908, nasceva Giovannino Guareschi, l’inventore del Mondo Piccolo di don Camillo e Peppone.
Con una periodicità pressoché stagionale, le televisioni pubbliche e private ripropongono da anni i film del ciclo di Don Camillo, liberamente (forse anche troppo) ispirati ai racconti di Giovannino Guareschi. Il favore presso il pubblico, o -se si preferisce- l'audience, è sempre di grado elevato, e ciò ha consentito da una parte il perpetuarsi della popolarità delle "maschere" di Don Camillo e Peppone a più generazioni, ma non sempre ha reso pienamente merito al loro creatore, autore italiano tra i più letti e conosciuti anche fuori dal nostro Paese.
Il doppio anniversario di Guareschi, della nascita e della morte, che avvenne a Cervia quarant’anni fa, nel luglio del 1968, può e deve essere l’occasione per riscoprire Guareschi, e con lui il suo mondo letterario, un universo capace di mostrare agli uomini quanto siano belli e quanto grande sia il loro destino: basta solo che abbiano l’umiltà di aprire la loro anima al soffio eterno del Creatore. Quel soffio che corre lungo il Grande Fiume e pulisce l’aria per riempirla di invenzioni impastate di terra e di cielo come raramente capita di trovarne nella letteratura contemporanea.
La Mostra vuole guidare alla scoperta di questo scrittore, attraverso la sua vita e la sua opera, dalla quale traspare una religiosità profonda, che affonda le radici nella tragica esperienza della Seconda Guerra Mondiale, dall’internamento in un lager nazista cui fu sottoposto insieme a tutti quegli ufficiali italiani che, come lui, avevano rifiutato di servire la Repubblica Sociale di Mussolini.
In questo senso è significativa la testimonianza di don Onorio Canepa, sacerdote genovese, che ebbe a dire di Giovannino: "Fu mio compagno di prigionia nei lager nazisti. In quei giorni sventurati seppe fare più lui da solo per dieci, ventimila e più internati, che tutti noi sessantaquattro cappellani messi insieme..." Davanti all'angoscia di chi vedeva il mondo cadergli addosso, di chi lamentava che tutto era finito, morto, Guareschi affermava: no, non tutto. Dio non è morto. Lontano sia dal pessimismo cupo che dall'ottimismo stolido, la sua posizione era quella del realismo cristiano, conscio del dramma che scaturisce dalla presenza del male e del peccato nel mondo, ma certo della speranza che Cristo ha vinto, che non è morto, poiché è risorto. Con una semplicità assolutamente priva di retorica, che gli faceva scrivere, sul settimanale Candido di cui era direttore negli anni '50: "No, non termino dicendo:Dio è con me. Concludo esprimendo l'ardente speranza di essere io con Dio!"
Senza Gesù Cristo non si va nessuna parte: questo è il Vangelo dei semplici, il Vangelo di don Camillo.
Guareschi è certamente un grande scrittore, e nonostante la peculiarità dell'ambientazione delle sue storie, ricche degli umori e dei sapori della sua terra, è scrittore di respiro europeo, apprezzato e compreso come pochissimi altri nostri autori
C'è un ulteriore Guareschi, infine, da riscoprire: è lo scrittore che -forse più di ogni altro- ha rivolto la propria attenzione alla famiglia, tanto che si può parlare di Giovannino sia come di uno scrittore per la famiglia, ma anche di scrittore della famiglia: In tutta la sua opera c'è grande attenzione, rispetto, amore, per il rapporto tra genitori e figli, tra uomo e donna innamorati, persino tra nonni e nipoti. La casa, la terra, l'amore per la propria storia, il ricordo dei propri morti e la speranza per i propri figli sono la spina dorsale di una civiltà che Guareschi amava, cui apparteneva, che ci ha descritto con realismo e con tenerezza, e che suscita nei lettori il desiderio di preservarne il senso.

Si può vivere così: da protagonisti



In un’epoca in cui sembra che nulla possa interessare, il Meeting ha mostrato che la gente non parte da discorsi o da idee astratte, ma è colpita da una presenza.

In questo senso il messaggio del Santo Padre è stato il segno di una presenza familiare al popolo del Meeting e ha indicato l’ipotesi di lavoro che ha segnato tutta la settimana: «Il Meeting vuole ribadire che solo Cristo può svelare all’uomo la sua vera dignità e comunicargli l’autentico senso della sua esistenza… Ecco dunque il protagonismo… ci vuole suoi collaboratori per la realizzazione del suo Regno».

Gli incontri del ciclo “Si può vivere così” hanno offerto la testimonianza di persone appassionate alla propria umanità, che nell’incontro cristiano hanno trovato la risposta al bisogno infinito del loro cuore e sono diventate perciò protagoniste: Vicky e Rose tra i malati di AIDS di Kampala, Cleuza e Marcos Zerbini tra i senza terra di San Paolo, padre Aldo Trento ad Asunción, Rosetta Brambilla a Belo Horizonte, suor Elvira e Margherite Barankitse, sono rimasti nella testa e nel cuore della gente, perché testimoniavano una chiarezza di sguardo sulla vita fino al riconoscimento di Cristo come una presenza reale. Il loro dire di sì al Mistero li ha resi protagonisti e questo è all’origine anche del cambiamento sociale che le loro storie hanno documentato. Così la mostra sulle carceri è stata una continua possibilità di incontrare la stessa novità nella presenza fisica dei carcerati che facevano da guida, mostrando un’altrimenti impossibile libertà. Allo stesso modo, nella testimonianza di Eugenio Borgna e Giancarlo Cesana un tema esistenziale come la solitudine è stato affrontato non come questione psicologica, ma come strada alla scoperta dell’originale dipendenza di ogni uomo che apre all’incontro con Qualcuno a cui poter credere. Come anche l'intervento di Marco Bersanelli ha documentato e testimoniato.

Gli interventi di personalità della Chiesa, dal cardinale Bagnasco al cardinale Tauran a monsignor Mamberti, fino ai vescovi Pezzi, Fisichella, Negri, Hinder (vicario apostolico d’Arabia Saudita) ha reso evidente che l’apertura verso l’altro nasce dalla coscienza della propria identità e che la fede cattolica mette nelle condizioni ottimali per incontrare chiunque sulla base della comune esperienza elementare, come è accaduto con gli anglicani Hauerwas e Milbank, con gli ortodossi Mescrinov e Polujanov, col buddista Habukawa e con l’ebreo Weiler.

In un momento in cui la situazione internazionale è confusa e carica di tensioni, il Meeting, fedele alla sua storia, è stato il luogo di un dialogo per la pace, i diritti dell’uomo e la convivenza tra i popoli, con personalità internazionali come l’ambasciatore USA Mary Ann Glendon, il segretario della Lega araba Moussa, gli economisti Krueger e Attali.

Quanto alla politica, particolarmente quest’anno in primo piano sono stati i temi - quali federalismo, welfare, sussidiarietà, istruzione – e non il gossip o le schermarglie fra avversari. Più d’uno fra i politici e imprenditori presenti a Rimini si sono sorpresi nel riconoscere che il Meeting reale è cosa del tutto diversa e ben più interessante rispetto a quello troppo spesso rappresentato nei media.

Al Meeting si è rinnovato l’incontro con intellettuali e scrittori che hanno documentato che la cultura non è un fenomeno da accademia, ma nasce all’interno di una appartenenza e si documenta come coscienza critica e sistematica di un’esperienza. Questo hanno testimoniato Aaharon Appelfeld, Michael O’Brien, John Waters e Gianpaolo Pansa, Javier Prades, Enzo Bettiza e Ivanovna Ljudmila Saraskina. Così lo spettacolo inaugurale ha riproposto i Cori da “la Rocca”, capolavoro di T.S. Eliot, con quel drammatico interrogativo - «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità cha ha abbandonato la Chiesa?» -, a cui la settimana del Meeting ha cercato di rispondere positivamente con la realtà di 4.000 volontari e di oltre 700.000 presenze, che hanno mostrato la realtà di un popolo per il quale la fede è l’esperienza di una soddisfazione perché corrisponde al bisogno che ogni uomo è, ed è l’inizio di un percorso della conoscenza che fa entrare ogni volta di più nella realtà da protagonisti.

Perciò, dopo il Meeting del desiderio e della libertà, dopo quello della ragione e quello della verità, il titolo del Meeting 2009 - che si svolgerà a Rimini dal 23 al 29 agosto - è: «La conoscenza è sempre un avvenimento».

sabato 9 agosto 2008

C'è vita (artificiale) nella tv italiana


Illustrazione di Stefano Navarrini

C’è differenza fra Intelligenza Artificiale e Vita Artificiale. È la stessa differenza che si registra fra il dibattito politico sulla televisione e il sistema televisivo stesso. Da una parte c’è l’Intelligenza Artificiale della discussione politica che “cerca di riprodurre le capacità umane in sistemi che non tengono conto della fisicità del cervello e del corpo e delle interazioni fisiche che gli esseri umani hanno con l’ambiente in cui vivono” (come scrive Domenico Parisi dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR su “Telèma”). Dall’altra c’è la Vita Artificiale del sistema televisivo italiano che “invece usa modelli che riproducono, anche se in modo semplificato, le caratteristiche del cervello, quelle del corpo e quelle dell’ambiente fisico” (sempre Parisi). Tutto qui, ma non è poco. È ovvio che le definizioni di Parisi non sono dedicate all’analisi della televisione italiana. Ma saltano agli occhi alcune analogie. Gli studi per l’Intelligenza Artificiale, nati più di cinquanta anni fa, sono stati coronati da piccoli successi marginali e da un clamoroso fallimento generale. Nonostante i miliardi spesi nella ricerca (impressionante, per esempio, lo stanziamento del governo giapponese del 1980) ancora oggi “non esiste un computer in grado di elencare, sulla base delle immagini che può ricavare dai suoi occhi elettronici, il contenuto di una stanza”, spiega Andrea Paoloni della Fondazione Bordoni. Proprio come alcuni politici di casa nostra. Nonostante tutto, infatti, e anche se sembra impossibile, ancora oggi nel Parlamento si parla di una televisione che non esiste se non nei calcoli politici di alcuni. È veramente come se ci fosse una sorta di blocco mentale che impedisca di elencare il contenuto dei valori e dei bisogni del Paese. È l’Intelligenza Artificiale del dibattito. Per anni si è discusso della necessità di una normativa agile e in grado di gestire lo sviluppo velocissimo del sistema della comunicazione. Proprio come nei laboratori dei ricercatori dove per anni si è lavorato sull’obiettivo principale dell’Intelligenza Artificiale che “è quello di costruire sistemi autonomi in grado di operare in ambienti dinamici e complessi” (Luca Tocchi del Dipartimento di Informatica e Sistemistica de “La Sapienza” di Roma). Scarsissimi sono stati i risultati, in tutti e due i casi. Tutt’altra musica invece nel campo degli studi sulla Vita Artificiale. “Questo approccio, secondo alcuni, è il solo che consentirà di superare alcuni dei limiti più rilevanti del tradizionale approccio simbolico tipico degli studi sull’Intelligenza Artificiale” (sempre Paoloni della Bordoni). È quello che manca al dibattito sulla politica italiana. La capacità di tenere conto dei bisogni delle persone e della loro interazione con il sistema civile e sociale di riferimento. La televisione, ovviamente, non è la vita. Come una vera e propria “Vita Artificiale” però “usa modelli che riproducono, anche se in modo semplificato, le caratteristiche del cervello, quelle del corpo e quelle dell’ambiente fisico”. Pensare di gestire il cambiamento del sistema della comunicazione senza tenere conto delle nuove domande che emergono dal paese reale è come cercare di costringere un computer a far finta di essere umano. Lo hanno bene intuito i cattolici di tutto il mondo che, guidati da Giovanni Paolo II (“Non abbiate paura dei mass media”, ripeteva spesso) e da Benedetto XVI, in questi anni hanno rivoluzionato le regole consolidate della televisione. “Difficilmente Roma potrà dimenticare tutto questo chiasso”, disse ridendo Giovanni Paolo II al milione e più di giovani riunitisi, in mondovisione, a Tor Vergata nell’agosto del Grande Giubileo del 2000. A leggere i commenti intorno alle vicende più banali della televisione italiana, invece, sembra che alcuni politici, già allora durante le Giornate del Giubileo, avessero ovatta nelle orecchie. Che evidentemente non devono essersi più tolti.

venerdì 8 agosto 2008

La comunicazione è come il ...


La pornografia dei mass media
Il ritrovato desiderio di castità
Il rimpianto per la perduta verginità


La comunicazione è come il sesso. Nel rapporto fra un uomo e una donna c’è il primordiale scambio di informazioni della vita. I sentimenti, intanto, che portano due esseri umani ad incontrarsi. E poi, alla fine, lo scambio di informazioni genetiche che producono la notizia più importante della nostra storia: la nascita di un nuovo essere umano, la sconfitta della morte.

Anche la comunicazione è un rapporto sessuale fra individui. Si vive il mestiere giornalistico con una passione che assomiglia moltissimo al desiderio. Il narcisismo soddisfatto di un giornalista di successo è come un orgasmo. E, quando le notizie sono autentiche, si producono fra spettatori e comunicatori delle vere e proprie epifanie, come quando nasce un figlio.

Ma ci sono anche aspetti negativi. Il broadcasting generalizzato di cattiva informazione è lo stupro di una banda di balordi ai danni dello spettatore, compiuto nella indifferenza colpevole dei più. Le emozioni più intime mostrate da rotocalchi e televisioni pomeridiane sono la vera pornografia a basso prezzo del sistema. Un certo modo di investigare e di raccontare la cronaca nera ricorda con fastidiosa evidenza i rapporti sado-maso con vestiti di pelle nera. Il “disastrismo” ricorrente di certe notizie, alla fine, è il contrario dell’epifania. È come se si avessero rapporti sessuali per provocare aborti invece che nuove nascite.

In questi anni ha cominciato a farsi strada uno strisciante e non dichiarato desiderio di castità. L’eccesso di informazione, paradossalmente, ha allontanato il pubblico dall’approfondimento, ha inibito il suo desiderio di capire. La comunicazione, mano a mano che aumentano le fonti strombazzanti, perde di qualità: diventa più superficiale, meno incisiva. Soprattutto diventa meno convinta. E quindi meno convincente.

Oggi quando si leggono i giornali o si vede la televisione (per non parlare di Internet) non si ha più la sensazione di avere un rapporto sessuale soddisfacente. Molta parte dell’informazione moderna è diventata purtroppo simile ad una serie ripetuta di rapporti sbrigativi e risolti alla bellemeglio in angoli irrilevanti della nostra giornata.

Più che la “notizia”, insomma, in Italia è il desiderio di un po’ di quiete, di una ritrovata castità ciò che si annida inconfessato nell’animo dei più.

Rimpiangiamo la nostra perduta verginità di una volta. Quando la nostra capacità di stupirsi, per gioire o per indignarsi, era ancora alta. Come certi incontri emozionanti della nostra adolescenza, quando una carezza timida e tremante poteva farci sognare ad occhi aperti. O quando bastava levare lo sguardo ad un cielo estivo per sentirsi bene.

Ecco cosa rimane dopo un anno di zapping


Affrontare la nuova stagione televisiva in autunno sarà più facile per le famiglie italiane. Preoccupati per la qualità dei programmi che vengono visti anche dai bambini, i genitori da quest’estate possono trovare in libreria “Un anno di zapping”, con 140 schede di analisi critica della programmazione tv. Le schede sono state curate da un team di professionisti coordinati da Armando Fumagalli e da Chiara Toffoletti. Il volume è edito dalle edizioni Magi ed è il risultato del lavoro svolto dall’Osservatorio Media del Moige – Movimento italiano genitori. “La Tv continua ad avere un peso fondamentale nella vita di tutti noi, in quanto importante veicolo di contenuti ed informazioni, condiviso all’interno della famiglia, nei confronti della quale, come tale, ha più responsabilità di una volta – spiega Elisabetta Scala, Responsabile Osservatorio Media del Moige -. Nessun intento censorio, però, e nessun desiderio persecutorio, ma solo il desiderio di arricchire il panorama critico sulla televisione in un’ottica costruttiva e positiva, nella quale il giudizio di noi genitori si propone una finalità fondamentale, quella di una crescita equilibrata dei propri figli, anche con la televisione”. I programmi sono contrassegnati da Conchiglie (fino a 14 per i programmi migliori) e da Bidoncini (fino a tre per quelli da evitare). Fra i promossi con il massimo delle 14 Conchiglie anche programmi di approfondimento come “Report”, “La storia siamo noi” , “Maria Montessori”, “Guerra e Pace”, “Sos Tata” e “Otto e Mezzo”. I tre “bidoncini” della valutazione più negativa sono stati aggiudicati, tra gli altri, a “Grande Fratello 8”, “Ciao Darwin”, “Buona Domenica” e “Gabbia di Matti”. “Abbiamo cercato di sintetizzare il giudizio espresso nelle singole schede in simboli chiari e comunicativi”, dice Armando Fumagalli, curatore del libro, docente di Semiotica e direttore del master in scrittura e produzione per la fiction e il cinema presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. “Questo libro è la sistematizzazione di un lavoro che il nostro Osservatorio Media porta avanti con successo da 11 anni - racconta Maria Rita Munizzi, Presidente Nazionale del Moige -. Sempre nello spirito del servizio verso i genitori italiani, vuole essere anche uno strumento di dialogo con gli addetti ai lavori”.

L’ultima mela del paese di Melonio


Mi sono svegliato all’improvviso, alle 4 di notte. E tutto mi è sembrato chiaro. L’ultima mela. Nel nostro paese di Melonio è l’ultima mela quella che ci stiamo litigando. Per intenderci, la mela è proprio quella della tradizione, quella dell’Antico Testamento. Dovrò andare a rileggermi il passaggio della Genesi dove si parla della mela, di Eva e di quel deficiente di Adamo.
Sì, dovrò andare a rileggermi tutto. Ma quasi non ce ne sarebbe bisogno. Nel paese di Melonio, dove viviamo, le mele sono tutto. Ogni giorno il dibattito si sviluppa intorno al nuovo modo per aggirare la ragione e cedere alla mela del momento. Denaro, potere, sesso: le mele del nostro paese sono infinite.
Questa notte, però, dopo essermi svegliato, mi sono fermato a pensare. Perché “L’ultima mela”? In che senso “ultima”? Perché ogni giorno ce ne sono di nuove e l’”ultima” è solo la più recente? O piuttosto perché “ultima” significa proprio che non ce ne saranno più? Che ci stiamo litigando e scannando per l’ultima e sciocca mela del nostro sciocco paese di Melonio?

Castelli di sabbia


“Brutto bastardo!”. Era veramente furibonda. “È che hai dimenticato come si costruiscono i castelli di sabbia”, mi urlò dentro le orecchie.
“Ma, senti, ma che c’entra?”, provai a replicare a bassa voce, per non svegliare le bambine che dormivano nella stanza accanto. Non era stato facile farle addormentare.
Lei scoppiò a piangere. Si accasciò sul divano, nascondendosi il viso fra le mani.
“Che palle”, pensai fra di me. Senza volere diedi un’occhiata all’orologio. Lei alzò il viso verso di me. “Come che c’entra?”, mi sibilò in faccia. Sembrava che mi odiasse veramente.
Era ancora bellissima. Una dea. Elegante, alta, magra ma non troppo. Anche se adesso urlava e della sua bellezza non c’era traccia.
Il salotto era un disastro. Lampade rovesciate, divani strappati. Il contenuto dei cassetti era rovesciato in terra. Si vedeva il segno sul muro dove erano stati appesi i quadri. Si distingueva chiaramente, come una sagoma disegnata con il gesso sull’asfalto, il vuoto lasciato dal televisore nella polvere sul mobile.
Camminai verso la finestra, facendo attenzione ai vetri in terra. “Quanto ci vuole alla polizia per arrivare?”, mi chiesi con fastidio.
“I castelli di sabbia. Cazzo. I castelli di sabbia!”, urlò alzando le braccia al cielo. “Un po’ teatrale”, pensai.
Eravamo sposati da dodici anni.

martedì 24 giugno 2008

Tv e sport in famiglia: errori da evitare


I genitori fanno un mestiere difficile. Spesso si commettono degli errori e i figli ne risentono. Un libro, pubblicato da “Ancora”, ha messo in fila 136 sbagli in tutti i settori, dallo studio alla fede, dall’alimentazione alla Tv. Il volume è stato scritto da una coppia di genitori, Gianni e Antonella Astrei, ed è stato illustrato da Pierluigi Diano (sono tutti e tre medici); si intitola “Gli errori di mamma e papà. Guida pratica per non sbagliare più”. Ecco alcuni degli errori che vengono spesso commessi in famiglia. Tenere la tv accesa durante i pasti. Non tenere conto degli effetti che un programma ha prodotto sul bambino (e non parlarne con lui). Utilizzare il telecomando per passare da un canale ad un altro quando si vede la Tv con il bambino. Il bambino accende la Tv senza conoscere i programmi in onda e inizia a vederli. Sottovalutare l’influsso della pubblicità. Non sapere ascoltare. Non sapere esigere. E via elencando. Ma su due dei tanti errori indicati, si dovrebbe soffermare la nostra attenzione: il bambino non ha nulla da fare, pertanto vede la tv; non comprendere il grande significato pedagogico del gioco. Sono temi comuni a molte famiglie. Può essere utile allora un altro libro. Si tratta di “Mini rugby. Chi, cosa, dove, quando, perché. Un’ottima occasione per ogni genitore e per ogni bambino” brillantemente scritto da Paolo Piersanti per “Società Stampa Sportiva”. Scrive l’autore: “Quattro anni fa mio figlio Nikos, oggi decenne, era irremovibile su ogni nostro tentativo di fargli praticare un po’ di sport. La sua ostinazione era tale che ecco cosa ci rispose il giorno che lo mettemmo alle strette. Spaparanzato sul divano, ci pensò bene per un po’, quindi si tirò su e disse: Posso scegliere il gioco delle bocce? Sono ormai quattro anni che l’ex pigrone Nikos gioca costantemente a Mini Rugby, e nonostante sia un gioco di gran lunga più impegnativo e faticoso della sua prima scelta, oggi penso che ci considererebbe definitivamente usciti di senno se gli proponessimo di sostituire la palla ovale con le bocce! E succederebbe altrettanto se nel bel mezzo di una partita gli mettessimo in mano un videogame o un telecomando. Pensate un po’ che magia!”. Ci sono molte alternative alla schiavitù del divano e della tv. Basta cercarle insieme con i nostri figli. Sapere ascoltare. Sapere esigere.

domenica 1 giugno 2008

martedì 29 aprile 2008

Le elezioni secondo Rainet

Anche i blogger discutono di risultati elettorali. Lo hanno fatto lunedì pomeriggio su Rainet. Un'iniziativa inedita. I blogger, per la prima volta, si sono trovati contemporaneamente dietro e davanti al computer. Sotto gli occhi di tutti. Vedere (e ascoltare) per credere

Le nuove parole della tv

Le parole della tv del futuro sono strane ma bisognerà impararle. Eccole: UGC, VC2, PODS. Sono stati appena lanciati due nuovi canali dove queste parole la fanno da padroni. Si tratta dell’edizione italiana di “Current tv” di Al Gore, l’ex-vicepresidente degli Usa, e di “YKS – The Internet Generation Channel” di Bruno Pellegrini, già fondatore di “TheBlogTv”. «YKS - spiega Pellegrini -, è un canale televisivo al cento per cento realizzato con UGC (Users Generated Content, contenuti realizzati dagli utenti). YKS fornisce una risposta alla richiesta degli utenti della rete di partecipare alla creazione di contenuti, alla genesi dell’informazione, fornendo loro uno spazio dove condividere esperienze e passioni». “YKS” sarà visibile su SKY (canale 863), e sul web su Virgilio.it.

Anche la “Current Tv” italiana di Al Gore sarà visibile sul web e sul canale 130 di Sky. Saranno messi in onda contenuti raccolti da internet e documentari brevi raccolti da una tribù di videomaker. La tv di Al Gore è nata negli Usa nel 2005 e ha già raccolto più di 50 milioni di spettatori abituali. Il suo primo scoop risale all'uragano Katrina: l'unico video girato da terra fu quello di un soccorritore volontario di 23 anni, che riprese i resti di New Orleans dalla barca con cui caricava i sopravvissuti. Il video fece il giro del mondo e fece impallidire colossi dell'informazione come la Cnn. Una redazione “interna” visiona i vari clip, che vengono definiti VC2, sceglie i migliori e li mette sul sito dove vengono votati. Solo dopo un certo numero di voti, il video passa in tv. «I contenuti dei telespettatori occupano un terzo della programmazione - spiega David Neuman, direttore dei programmi -. Gli altri programmi si chiamano PODS e sono dedicati agli argomenti più disparati. Attualità, politica, costume. Nel caso dell’Italia ci sarà anche la moda, non le sfilate ma la street-fashion, quella che i ragazzi si creano da soli, diventando poi ispirazione dei più grandi stilisti». I videoamatori saranno anche pagati: dai 200 agli 800 euro. «Siamo una tv fuori dagli schemi - dice il co-fondatore, Joel Hyatt -, con un motto che in inglese suona "Your world. View" e in italiano si può tradurre in "Il tuo punto di vista sul tuo mondo"». Ma perché proprio l’Italia come primo Paese non di lingua inglese? «Un’indagine ci ha permesso di valutare le tendenze del vostro Paese che confermano come la tv in Italia sia in enorme crescita, così come è in crescita costante l’attenzione per la Rete. Noi siamo tutte e due le cose insieme».

Deborah Bergamini allo YAB per la festa Pdl

Arriva il Fiuggi Family Festival

La prima edizione del Fiuggi Family Festival, l’unica manifestazione italiana interamente dedicata all’intrattenimento familiare, sarà presentata alla stampa il prossimo 6 maggio alle ore 11,30, presso la Casa del Cinema di Roma. L’iniziativa si svolgerà dal 28 luglio al 3 agosto 2008 nella città di Fiuggi ed è organizzata in collaborazione con il Forum delle Associazioni Familiari.

Sono già molte le adesioni alla prima edizione del Fiuggi Family Festival. La Disney, la Universal, RaiCinema e Medusa Film, insieme con la Lux Vide di Matilde Bernabei, hanno già garantito la loro attiva collaborazione. Anche Igino Straffi, l’inventore del successo mondiale delle Winx, sarà fra i protagonisti della manifestazione.

Il Fiuggi Family Festival è presieduto ed è stato fondato da Gianni Astrei, del Direttivo del Forum delle Associazioni Familiari. Il direttore artistico è Andrea Piersanti, già presidente dell’Istituto Luce e dell’Ente dello Spettacolo. Il coordinatore del comitato scientifico è il prof. Armando Fumagalli della Cattolica di Milano. Il direttore generale della manifestazione è Fabio Fabbi. A presiedere la giuria per il concorso del festival ci sarà il regista Pupi Avati.

L’iniziativa ha il patrocinio del Segretariato Sociale della Rai. I media partner del festival sono il mensile di cinema “Best Movie” e il settimanale “Famiglia Cristiana”.

Sono previste cinque anteprime cinematografiche dal listino blockbuster del prossimo autunno. Ci sarà anche una sezione in concorso con film inediti di produzioni indipendenti provenienti da tutto il mondo. 

 
  

Motivazioni politiche

domenica 13 aprile 2008

Telefilm, alla faccia del pudore

Le serie tv Usa, in piena schizofrenia editoriale, si sono lasciate sedurre dal sesso fine a se stesso, che la farà da padrone anche al «Telefilm festival» di Milano. «Una potente metafora narrativa» si difendono gli organizzatori. Ma forse è solo questione di mancanza di idee. La nuova frontiera del film per la televisione è il sesso. Esplicito o solo raccontato, il sesso sul piccolo schermo per famiglie è l’ultima trovata dell’industria tv americana. Il dato è emerso con evidenza durante la presentazione del cartellone del «Telefilm festival» che si svolge a Milano proprio nel mese di maggio. «Il sesso nei telefilm sarà uno dei temi centrali dell’edizione di quest’anno» ha spiegato Leo Damerini, fondatore dell’Accademia dei telefilm, alla giornalista Francesca D’Angelo. È stata proprio la D’Angelo, in un suo articolo pubblicato su Libero, ad analizzare per prima in Italia la tendenza sessuofila della fiction Usa. «Dopo due anni di moralismo, l’America è tornata finalmente a parlare dell’amore, in maniera anche forte ed esplicita – ha raccontato Damerini –. Nei telefilm però il sesso non è mai pura pruderie, fine a se stessa: anche nelle serie più estreme, appare prima di tutto come una potente metafora narrativa». Sarà anche vero, ma quello che emerge non tranquillizza. Secondo Francesca D’Angelo, che ha esaminato con attenzione il programma del festival, ci sono tutte le perversioni possibili. «Da quando i telefilm hanno riscoperto il piacere dei sensi, in video impazza la voglia di coccole e lenzuola» ha scritto nel suo articolo. Ecco un piccolo elenco esemplificativo. Intanto il titolo del convegno del festival sarà, manco a dirlo, «A tutto sesso, siamo serial». Poi è annunciato un omaggio dedicato alla prima serie della tv Usa interamente e esplicitamente dedicata al tema del sesso, il cult Sex and the city. In programma c’è l’anteprima di The secret diary of a call girl. La serie, di origine inglese, si ispira al blog di una prostituta d’alto bordo. «È un telefilm molto esplicito» ha tenuto a precisare Damerini, nel timore che qualcuno pensasse il contrario. A Milano si potrà vedere anche Californication. Già in onda su Jimmy e, in tarda primavera, su Mediaset, il telefilm racconta le donne (molte) e gli amori di un uomo malato di sesso. Si tratta di una vera e propria schizofrenia editoriale. Al cinema, negli Usa, si sono riscoperti valori importanti come la difesa della vita fin dal suo concepimento: lo si è visto nel film Juno. In tv invece arriva il sesso fine a se stesso. Ma davvero se ne sentiva la mancanza?

martedì 18 marzo 2008

Al cinema! Al cinema!

di Andrea Piersanti










“Al cinema, al cinema!”. L’urlo concitato, ritmato come in un sogno, mi scosse dal mio torpore. Un tizio enorme, grasso e sudato, correva affannosamente in mezzo alla strada. “Al cinema, al cinema!”, gridava.

Due turisti giapponesi, con telecamera, non riuscirono a nascondere un educato gesto di disappunto: il grassone aveva rovinato l’inquadratura.

Nella piazzetta non c’era molta gente: qualche spaesato straniero, un paio di ragazze molto carine al tavolino di un bar. Io ero seduto all’ombra di un austero palazzo. Roma sembrava come sospesa. Dalle finestre aperte arrivava, soporifera, la voce monocorde del commentatore tv: la nazionale di calcio stava perdendo.

“Al cinema”, rantolò il ciccione. Era vestito in modo bizzarro. Una anacronistica paglietta sui capelli tinti e appiccicati per il sudore, una giacchettina a righe gialle, un papillon rosso vermiglio, pantaloni larghi, chiari e svolazzanti intorno alle cosce carnose, scarpe di vernice nera, con ghette bianche. Si accasciò sulla panchina di pietra, accanto a me. Si tolse il cappello e con un enorme fazzoletto si asciugò la fronte.

“Al cinema, sapesse…”, cominciò voltandosi verso di me. Lo guardai con fastidio. “Non vado al cinema da quando ero bambino. Non credo che mi interessi sapere cosa succede al cinema, oggi”, dissi, con aria antipatica. L’altro fece una faccia delusa, un accenno di broncio quasi infantile sulla piccola bocca affogata nelle enormi guance. Poi volse lo sguardo verso la piazza. Sembrò improvvisamente stanco, stanchissimo. Si rimise la paglietta con un gesto svogliato. “Quand’è così…”, disse alzandosi con uno sbuffo.

Si stirò lentamente alzando il volto in alto, con gli occhi chiusi. Allargò le braccia, mostrando ampie macchie di umidità sotto le ascelle. Poi si guardò intorno, inalando aria rumorosamente. “Al cinema, al cinema!”, gridò selvaggiamente. E riprese a correre. In modo disordinato, con la sua andatura poco atletica, lasciò la piazza. “Al cinema, al cinema!” si udì ancora una volta.

Nella piazza tornò il silenzio. Le ragazze continuavano, a bassa voce, a confidarsi i loro segreti di adolescenti. I turisti vennero sostituiti da altri turisti. Dalle finestre aperte, la voce monocorde del commentatore tv tradiva una intima tristezza. La nazionale di calcio stava perdendo.

lunedì 25 febbraio 2008

Cronache marziane: Veltroni licenzia Prodi


Il pianeta rosso di Veltroni è gelido. Altro che Di Pietro! Altro che il disastroso ingresso della Bonino e la pronta reazione della Binetti ("È un calcio nei denti ai cattolici del PD"). Il vero problema per Veltroni è che deve licenziare Prodi ma non sa come dirglielo. Il premier uscente infatti è la vera zavorra che impedisce al progetto politico di rimonta di Veltroni di prendere il volo. Con Prodi alle spalle, come presidente del partito, Veltroni non sa che pesci prendere. "Si parla troppo di forma dei partiti e poco della sostanza dei problemi", ha detto con un sorriso di sufficienza la Bindi. Infatti! La sostanza dei problemi politici che Veltroni si porta dietro pesa come un macigno. È evidente che non ne voglia parlare. Gli scenari sono inquietanti. Nel caso di una sua vittoria politica, Veltroni dovrebbe andare a Palazzo Chigi a governare e dovrebbe lasciare la guida del nuovo partito proprio a Prodi. Le immagini che ne conseguono sono da incubo. Almeno per Veltroni. Prima scenetta: trattativa con il capo del PDL Belusconi. A guidare la delegazione dei Democratici c'è Prodi. Una catastrofe. Seconda scenetta: trattativa interna per sedare il fuoco d'artificio fra la Bonino e la Binetti. Prodi conduce la mediazione. Un prevedibile disastro. Terza scenetta: Di Pietro dà i numeri (come al solito). A discutere con gli ex dell'Italia dei Valori va Prodi. Un macello già visto. Quarta scenetta: la sinistra estrema guidata da Bertinotti chiede di essere ascoltata e inscena clamorose quanto scontate proteste. A sedare gli animi dei comunisti scende Prodi. Da schiantare dal ridere.
C'è però anche l'altra ipotesi. Più concreta. Berlusconi vince e Veltroni deve tornare sui banchi dell'opposizione. Si inizia a discutere delle cariche istituzionali e Veltroni, non avendolo licenziato per tempo, è costretto a proporre proprio il nome di Prodi. Gli sghignazzi si sentirebbero fino in Australia.
Terza ipotesi: i due partitoni pareggiano e Veltroni è costretto a chiedere il voto dei neo centristi, compreso quello di Mastella, magari con un appoggio esterno di Bertinotti. A chi il compito di organizzare il tavolo delle trattative per conto di Veltroni se non al presidente dei Piddini, il buono e vecchio Prodi? Solo che Veltroni ha i brividi che gli corrono dietro la schiena. Lo schieramento, alla fine, sarebbe identico a quello del Governo uscente e, a ricordarglielo ogni giorno sarebbe proprio il sorriso sdentato e vagamente iettatorio del presidente del suo stesso partito.
Anche per concordare un nuovo e delicato gioco di relazioni con il Vaticano Veltroni sarebbe costretto a portarsi dietro l'ingombrante faccione di Romano. Facile immaginare l'espressione di Bertone nel momento in cui si ritrovasse costretto a stringere la mano di colui che aveva provato a legiferare sulle coppie di fatto, che aveva stretto alleanze più o meno coatte con rifondaroli e centri sociali di tutt'Italia e che aveva guidato la grande offensiva anticlericale del giornale-amico "La Repubblica".
C'è infine la quarta ipotesi: la grande alleanza fra Berlusconi e Veltroni. E Prodi? Dove lo metterebbero? In cantina?
Insomma Veltroni non ha scelta. Deve licenziare Prodi. Forse sarà questo uno degli annunciati colpi a sorpresa della campagna elettorale. Durante la sua prima uscita tv a Porta a Porta, il sorridente Veltroni infatti ha avuto un solo attimo di esitazione. È stato quando gli hanno chiesto se si sarebbe portato dietro Prodi ai comizi elettorali. Si è agitato sulla poltroncina, ha balbettato qualcosa e sulle labbra tirate gli si è formato, involontariamente, il tic lessicale che gli è più proprio: "ma anche no".

sabato 23 febbraio 2008

Scegliere la tv è possibile.


Giuliano Ferrara (con il suo "Otto e mezzo") c'è nel piccolo elenco della migliore televisione dell'anno compilato da Armando Fumagalli e Chiara Toffoletto nel libro "Scegliere la tv" edito da Ares. "È incorso una battaglia sul modello di famiglia verso cui vuole orientarsi la società – spiega Fumagalli -. Su molti temi etico-sociali importanti (diffusione delle armi, lotta alla disoccupazione e alla povertà, strategie per lo sviluppo economico, tutela della privacy e delle libertà individuali, inquinamento ecc.) sono rappresentate in Tv le varie posizioni; su altri temi etici sensibili (rapporti sessuali pre- o extra-matrimoniali, valutazione morale delle relazioni omosessuali, eutanasia, fecondazione artificiale) c'è invece una sorta di unanimismo assolutizzante, che va dalle dichiarazioni delle soubrette fino al telefilm americano, passando attraverso praticamente tutti i salotti televisivi, che sono la multiforme espressione del pensiero unico dominante. Il solo che ha il coraggio di ospitare posizioni diverse è Giuliano Ferrara". Fumagalli è docente di Semiotica e Direttore del Master in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema presso l'Università Cattolica di Milano. La coautrice del libro, Chiara Toffoletto, lavora come story analyst per la casa di produzione televisiva Lux vide e collabora allo stessoMaster. Insieme con un team di giovani professionisti del settore, formatisi presso l'Università Cattolica, hanno analizzato più di 8.000 ore di tv. Ne è uscita una mappa per scovare i programmi da non perdere e quelli da evitare. "Ma questo non è un libro di critica tv", avvertono. "Il nostro obiettivo è di offrire uno strumento nelle mani dei telespettatori, per aiutare a discernere se c'è qualcosa che vale la pena vedere, quali sono i modelli di vita proposti, quali sono i valori di cui i programmi televisivi coscientemente o incoscientemente si fanno portatori". Circa 130 schede di programmi televisivi per scoprire che "la tv non è tutta da buttare". Fumagalli è soddisfatto: "Possiamo dire che ci sono programmi interessanti e utili in molti generi televisivi. Ancora una volta questo dimostra che i condizionamenti del mezzo ci sono e non sono pochi, ma la vera differenza la fa il gusto, la sensibilità, la cultura di chi elabora il programma".

venerdì 25 gennaio 2008

Matrimonio



di Andrea Piersanti


Mano nella mano,
asciutte e nervose.
Mano nella mano,
umide e impacciate.
Come la prima volta.
Mano nella mano.
Forti e sicure
in cerca di qualcosa.
Deboli e sfuggenti
in fuga da tutto.
Mano nella mano,
giorno dopo giorno.
Mano nella mano,
nella folla immensa
di un mondo infinito,
grande e spaventoso.
Mano nella mano.
Sostegno ad una lacrima
o alla speranza di un sorriso.
Mano nella mano,
con la paura sottile
che improvvisamente,
mano nella mano,
rimanga il vuoto
e il rimpianto struggente
dell’abbraccio caldo
di quelle dita amate
intrecciate strette.
Mano nella mano.
(ad una amica)

lunedì 14 gennaio 2008

Un sogno...

... per realizzare un sogno!