mercoledì 3 agosto 2005

"Che stronzate!"

di Andrea Piersanti











"Che stronzate!". Ecco. "Che stronzate!". Fu questo l'ultimo commento di mio padre. Disse proprio così, con un filo di voce: "Che stronzate!". Morì dopo qualche mese di silenziosa agonia. Aveva un tumore al cervello. "Che stronzate!" furono così anche le ultime parole della sua vita.
Il nostro era stato un rapporto difficile. Con lui avevo avuto sempre l'impressione di pattinare in salita su una strada ghiacciata. Il giorno del suo funerale c'era un gran caldo. Il sole arroventava l'asfalto e inzuppava le camicie.
Il funerale mi parve infinito. Infinito e umido. Sentivo il sudore correre a rivoli sotto la giacca. Le lacrime di parenti e di conoscenti si mischiavano all'umidità dei miei abiti. Ricambiavo gli abbracci con imbarazzo crescente: non conoscevo molte delle persone presenti.
La seconda moglie di mio padre, Anna, era seduta accanto a me e ogni tanto mi stringeva la mano. Era invecchiata dall'ultima volta che l'avevo vista. Si muoveva con difficoltà e portava un busto. Le avevano dovuto sistemare una sedia per permetterle di seguire la funzione: la panca della chiesa era troppo dura, mi spiegò qualcuno in un soffio.
Il prete lesse anche una lettera che doveva essere stata scritta da mio padre prima di morire. Bella, un po' retorica. Ridondante. Non mi sembrava il suo stile. Mi chiedevo anche: ma quando l'avrà scritta? Il cancro in testa l'aveva assalito all'improvviso, mozzandogli il respiro dell'intelligenza in modo repentino. Quasi dall'oggi al domani. Mi dissero, fuori dalla chiesa, che la lettera era un innocente falso. Era stata scritta da Giampiero, figlio di primo letto di Anna. Non me la presi. Faceva molto caldo e io avevo il gelo nel cuore.
Giampiero aveva assistito mio padre in ospedale per sei mesi, giorno e notte. Era ancora molto piccolo quando aveva perso il suo vero papà, quello biologico. L'accanimento con il quale assistette mio padre nell'agonia doveva sembrargli un riscatto per il dramma più intimo che aveva vissuto molti anni prima. Ogni tanto andavo a trovarli in ospedale. Mio padre sempre più assente. Giampiero sempre più agitato man mano che la fine si avvicinava. Lo accompagnavo fuori per fargli compagnia mentre si fumava una sigaretta. Mi diceva: sai come fa tuo padre quando dorme? Io lo guardavo con una pioggia di amarezza nel cuore. Sono 40 anni che non dormo sotto lo stesso tetto con mio padre, trovavo alla fine la forza di dirgli. Con tenerezza aggiungevo: non l'ho mai visto dormire.
Mia madre e mio padre si erano separati quando io avevo 8 anni. Non si erano più visti o parlati. Solo una volta. Durante l'udienza per il divorzio. Adesso, dopo una vita intera, entrambi erano stati colpiti da un tumore. Era stato diagnosticato a tutti e due nella stessa settimana. Non avevano vissuto insieme se non per il breve tempo necessario per concepire il progetto di una famiglia. Adesso morivano insieme, all'insaputa l'uno dell'altra. Mia madre accudita da me e dai miei fratelli. Mio padre assistito da un figlio non suo con il quale però aveva sempre vissuto.
Faceva veramente caldo il giorno del funerale di mio padre. Io, invece, avevo il gelo dentro. Chinai il capo e salutai parenti, conoscenti e perfetti sconosciuti. Le lacrime mi impregnavano la giacca e la camicia già zuppe. Un uomo, grande e grosso, mi si parò davanti. Piangeva come un vitello. Ero il migliore amico di tuo padre, mi disse. Singhiozzava rumorosamente. Io non lo avevo mai visto. Montai in macchina e me ne andai. Ero esausto. Mentre guidavo, un solo dubbio mi stringeva la gola. Che, alla fine, avesse avuto ragione lui. Che, alla fine, veramente fossero state tutte stronzate.

martedì 28 giugno 2005

L’affanno dei media e la politica italiana

Cadono le certezze e si sente l’affanno dei media. Le televisioni di tutto il mondo si confrontano con l’avvento delle nuove tecnologie del digitale e della moltiplicazione dei canali, quindi con la fine annunciata del modello tradizionalmente generalista di broadcasting. Le compagnie telefoniche invece provano a distribuire (e addirittura a produrre) contenuti, confrontandosi con il mercato nuovissimo della banda larga di cui però non è ancora stato definito il modello di business. Anche l’anziano re di tutti i media, il boxoffice cinematografico Usa, è in calo per la prima volta da anni e si deve confrontare con la necessità di rivedere il complesso sistema delle finestre di sfruttamento dei film, dalle sale all’homevideo. In questo scenario, le discussioni italiane intorno ai destini della Rai assomigliano molto al suono dell’orchestra sulla tolda del Titanic. Si capisce che sta per nascere un modo diverso di intendere la comunicazione di massa (dai blog su Internet ai nuovi modelli di tv interattiva per la videofonia mobile) ma il nostro dibattito politico sul servizio pubblico e sulla televisione è testardamente rivolto al passato. Si ha la sensazione che ci sia una diffusa incapacità di intercettare il cambiamento, di capirne la portata. Insieme con l’affanno crescente dei media, si intuisce insomma un’ennesima prova dell’ottusità di molti politici italiani.

Si tratta di una miopia che ha origine remote. Nel nostro paese c’è sempre stata una distanza quasi schizoide fra la comunicazione (e l’intrattenimento) di massa e l’elaborazione colta del pensiero politico. A cominciare dagli anni Venti. In quel periodo la Chiesa cattolica, guidata da Pio XI, non solo aprì la Radio Vaticana (1931) ma fondò anche il Centro Cattolico Cinematografico (1928), una struttura che era destinata a diventare centrale nella vita culturale italiana promuovendo registi come Vittorio De Sica e lo stesso fenomeno del neorealismo. Questa importante intuizione delle potenzialità dei mezzi di comunicazione venne però accolta con diffidenza da intellettuali e politici: per anni il Vaticano infatti è stato accusato di perseguire atteggiamenti censori e ancora oggi sono pochissimi coloro che sono in grado di analizzare, al contrario, il ruolo propulsivo della cultura cattolica del Novecento. Fu uno dei primi grandi abbagli del pensiero moderno italiano, talmente paradossale da impedire a molti, in tempi più recenti, di capire fino in fondo la vera e propria rivoluzione mediatica di Giovanni Paolo II. È con il suo pontificato che il sistema della comunicazione contemporanea si scontra per la prima volta con la domanda globale di valori e di contenuti forti da parte del pubblico di tutto il mondo. “Difficilmente Roma potrà dimenticare tutto questo chiasso”, disse Giovanni Paolo II ridendo al milione e più di giovani riunitisi, in mondovisione, a Tor Vergata nell’agosto del 2000.

Negli anni venti, su un fronte laico e molto distante dal Vaticano, nasce anche un’altra grande rimozione collettiva della cultura e della politica italiana. Nel 1924, infatti, Mussolini getta le basi dell’industria dell’intrattenimento del nostro paese. Fonda prima l’Istituto Luce e, poi, Cinecittà. Il primo con intenti propagandistici ed pedagogici (Luce stava per L’Unione Cinematografica Educativa), il secondo per creare presupposti industriali adeguati allo sviluppo del cinema (in quel periodo vengono realizzati a Cinecittà i primi grandi kolossal della storia del cinema mondiale). Queste iniziative di Mussolini diedero un contributo troppo spesso ignorato allo sviluppo della modernità del nostro paese. “Noi registi dovremmo ringraziare Mussolini e Andreotti (contribuì nel dopoguerra all’erogazione dei finanziamenti pubblici al cinema italiano)”, ripete spesso in modo sornione il bertinottiano Citto Maselli. Fu proprio grazie alle strutture di Cinecittà che poterono crescere e poi svilupparsi i germi del neorealismo e del grande cinema italiano del dopoguerra. Ma ancora adesso questa semplice analisi è vittima di una vasta e articolata rimozione censoria da parte dei salotti buoni della cultura italiana. I recenti studi della storica americana Ruth Ben-Ghiat su Fascist Modernities: Italy, 1922-45, pubblicati nel 2001 dalla “Berkeley: University of California Press” e tradotti in Italia da “Il mulino” (La cultura fascista), sono stati ferocemente e brutalmente stroncati dai giornali italiani.

D’altra parte viviamo nel paese dove la più grande rivoluzione televisiva del dopoguerra, la nascita della Fininvest di Berlusconi, che ha contribuito nel bene o nel male a modificare integralmente le abitudini degli italiani, ancora oggi non viene quasi mai analizzata in chiave sociologica ma esclusivamente in chiave politica e strumentale.

Non stupisce, quindi, la nuova ottusità della politica italiana nei confronti dei cambiamenti ampiamente annunciati del sistema dei media. È il risultato di un percorso culturale antico che impedisce ancora oggi di comprendere fino in fondo il paese che si intenderebbe governare. Come a dire che, forse, c’è un nesso più stretto di quanto si sia disposti ad ammettere fra l’autogol sul referendum  e la confusione sulla nomina del presidente della Rai. Capire l’aria che tira a Via Mazzini aiuta a capire il paese, si ripete spesso. Riuscire a sentire l’affanno dei media, aiuterebbe ad  intercettare i nuovi bisogni degli italiani e ad elaborare strategie politiche meno miopi.

martedì 22 marzo 2005

Soldati italiani nel fango




di Andrea Piersanti




Soldati italiani nel fango della trincea, lanciati contro il nemico, sotto il fuoco incrociato dei bombardamenti, intenti a leggere le lettere dei loro cari, impegnati a mangiare il rancio sotto una pioggia battente. Sono immagini in bianco e nero, rubate in un momento di verità, e rappresentano il primo autentico shock dell’era moderna dei mass media. Mai il cinema aveva ripreso il dramma della guerra. Mai il pubblico aveva potuto partecipare così da vicino alla follia di quelle sanguinose carneficine.
Eroici furono i soldati destinati al massacro. Eroici furono gli operatori che portarono le macchine da presa nel disastro rumoroso e cruento della linea del fuoco.
È una storia che dove essere ancora raccontata ma che, soprattutto, deve essere ancora capita. Oggi i telegiornali internazionali ci hanno abituato alla freddezza “chirurgica” delle immagini dall’alto (una casa, che sembra disegnata sul televisore, esplode in una nuvola di fumo) e delle immagini della “visione notturna” (quel verde acido micidiale con segni graffiati che sembrano fuochi d’artificio alieni).
Ma allora, cento anni fa, le immagini che provenivano dal fronte della Grande Guerra, mostravano le macchie scure del sangue e il bianco delle ossa divelte dalla carne. Non c’era freddezza o distacco. L’operatore era accanto a chi moriva e lo spettatore quasi ne poteva sentire l’ultimo lamento.
Le platee si riempirono dell’orrore silenzioso della guerra. Un tipo di cinema che era caratterizzato dalla commozione e dalla pietà dell’uomo per l’uomo.
Si parla molto della moda del documentario storico. I programmi realizzati con il materiale in bianco e nero dei nostri archivi vanno in onda in prima serata e sfondano ogni record di ascolto.
L’opera che proponiamo ora ha però un significato in più. Il cinema d’azione contemporaneo ci ha in qualche modo assuefatti alla pornografia della violenza. Sparatorie e incidenti mortali inondano gli schermi delle grandi produzioni cinematografiche di tutto il mondo. Ma il sangue sintetico che corre copioso sullo schermo non svolge una funzione educativa. Anzi. Il pubblico ne reclama altro, come in una sorta di gigantesco colosseo mediatico.
L’orrore senza audio, discreto e infinitamente drammatico, delle immagini dei cinegiornali della Grande Guerra invece colpiscono oggi come allora. Furono uno shock allora, cento anni fa. Saranno un trauma anche per il pubblico smaliziato del Duemila. È questa la nostra scommessa.
Speriamo che lo schiaffo intimo e doloroso di queste immagini possa essere pedagogico. Ci illudiamo? Forse no. Mai come in questo caso, vale il detto: guardare per credere.



Prefazione a

La Guerra degli Italiani

Piero Melograni racconta la Guerra vista dagli italiani, in un volume di 319 pagine con oltre 440 immagini ed illustrazioni rare ed inedite provenienti dall'Archivio Storico dell'Istituto Luce. Il volume e' accompagntato da ben 4 DVD per un totale di oltre otto ore di filmati, per una panoramica a 360° su uno dei massimi e piu' tragici eventi della storia dell'umanita'.

mercoledì 12 gennaio 2005

Europa del '900 - Polemiche inutili


Caro Direttore la ringrazio per lo spazio che il suo giornale ha voluto dare alla nostra iniziativa “Europa del ‘900”. Si tratta della raccolta degli atti di un convegno svoltosi a Roma alla fine di giugno. L’idea è quella di aprire un dibattito, serio e articolato, sulla possibilità e l’opportunità di produrre un documentario (con il montaggio delle immagini dei cinegiornali di tutti gli archivi europei) sulla storia del Novecento europeo. La forte e appassionata reazione del vostro Settimelli è la dimostrazione che, come era prevedibile, questo dibattito sarà vivace. È inevitabile. Mi spiace solo che il pregiudizio abbia offuscato per un attimo le facoltà del vostro giornale. Il progetto è ancora nella fase embrionale. Il libro di cui voi parlate è solo l’annuncio di una volontà editoriale del Luce e non già il progetto stesso. Le foto di questo volume (c’è anche Picasso, proprio in copertina) intendono suggerire solo emozioni e non rappresentano una scelta di campo. Accusare il Luce, inoltre, di voler ignorare il dramma della Shoah è bizzarro. La Shoah Visual History Foundation (quella fondata da Spielberg), l’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti), l’Associazione “Figli della Shoah” e alcune delle più importanti comunità ebraiche italiane e internazionali collaborano da mesi con il Luce per la produzione di documentari storici e per la ricostruzione e la gestione degli archivi audiovisuali. Mi spiace quindi per l’amarezza che traspare dalle parole di Settimelli. Il comitato scientifico del documentario sull’Europa del Novecento, se riusciremo a realizzarlo, sarà rigorosamente rappresentativo della pluralità delle interpretazioni storiografiche. A coordinarlo è stato chiamato proprio Valerio Castronovo. Si tranquillizzino i vostri lettori. È il metodo che abbiamo usato nel nostro passato recente (come nel caso del fortunato “La storia d’Italia” di Quilici), lo sarà a maggior ragione nel futuro. Mi incuriosisce invece il sentimento di scandalo espresso da Settimelli. Sembra un atteggiamento destinato a negare fin dall’inizio la possibilità di un dibattito. Come se, nella testa e nella cultura di Settimelli, non esistesse lo spazio per accogliere opinioni diverse dalle proprie. Un segnale inquietante nello stesso giorno in cui invece l’Istituto Luce da me presieduto dimostra, con il bellissimo “Private” di Saverio Costanzo, che il nostro atteggiamento editoriale è caratterizzato da apertura e da rispetto per le idee e i sentimenti di tutti. E quindi anche per quelle del vostro giornale. La mia lettera di oggi, infatti, è solo per amore della chiarezza e non ha intenzioni polemiche. Perché anzi la ricchezza di un dibattito così vivace non potrà che impreziosire il nostro lavoro. Con gratitudine per l’attenzione, Andrea Piersanti


Lettera a L'Unità