venerdì 24 giugno 2011

Una distanza giusta


La Home Page del nuovo sito

Cambio sito. Mi sposto su La giusta distanza. Le cose cambiano. I siti anche. Per non parlare delle persone. Ci vediamo .

giovedì 2 giugno 2011

Tatanka: uno schiaffo per i poliziotti


Uno sparo, violento come un’esplosione, assorda le prime immagini sui titoli di testa del film “Tatanka”, opera seconda di Giuseppe Gagliardi. Il film è tratto da un racconto che Roberto Saviano (Gomorra) ha voluto dedicare ad una palestra per boxeur di Marcianise in provincia di Caserta. Le grida delle donne impaurite, un volo di gabbiani in fuga sul mare, una ripresa vertiginosa dall’alto (gli americani la chiamano “occhio di Dio”, “Godeye”) sul molo dove si è consumato l’omicidio. La macchina da presa rimane lontana. Come distaccata dal terreno. L’ammazzato è un poliziotto corrotto, ucciso dai propri corruttori, i camorristi. Il film, che si apre con un forsennato inseguimento fra i vicoli di Marcianise, narra la storia di un atleta che riesce a sfuggire al laccio mortale della camorra campana grazie al proprio talento per il pugilato. Il protagonista principale, Clemente Russo, è un vero pugile campano, poliziotto del club delle Fiamme Oro, campione mondiale di boxe, vicecampione olimpico e di nuovo in allenamento, dopo il film, per partecipare alle prossime Olimpiadi di Londra. La palestra di Marcianise, narrata da Saviano nel suo racconto e riproposta dal film, è la stessa dove il pugile Clemente Russo, ora neo attore, è veramente cresciuto e si è formato. A causa del film però, Russo si è meritato una sospensione di sei mesi dal servizio. “E gli è andata anche bene. I suoi meriti sportivi lo hanno salvato da una punizione ben più severa”, dicono i suoi colleghi. La Polizia di Stato non aveva autorizzato la sua partecipazione al film. Non sono stati resi noti i motivi ma è facile immaginare quanto dovessero essere contenti i superiori di Russo di vedere un collega recitare in un film di questo genere. Ecco cosa succede nella prima mezz’ora del racconto cinematografico. Nella questura dove stanno indagando per scoprire i killer del collega ammazzato sul molo, due poliziotti uccidono un povero ragazzo innocente. Un eccesso di tortura (quella dell’acqua fatta ingurgitare a forza, la stessa, dicono, che sarebbe stata usata a Guantanamo). Per evitare guai lo buttano in mare, come a simulare un annegamento incidentale.  Nella parte rimanente del film, la Polizia di Stato scompare, come se nella lotta quotidiana alla camorra, combattuta per strada e con un alto costo di vite umane proprio fra gli uomini e le donne in divisa, non ci fosse un ruolo per le forze dell’ordine. Gli sceneggiatori che hanno scritto "Tatanka" hanno un curriculum interessante: “Gomorra”, “L’imbalsamatore”, “La doppia ora”. Professionisti, insomma, giovani promesse nel ricambio generazionale del nuovo cinema italiano che sta arrivando. La scena che sembrerebbe aver procurato la sospensione al pugile, quella dei poliziotti torturatori e assassini, non poteva essere eliminata dal film, hanno detto gli autori. “Avrebbe snaturato il senso dell’operazione”, hanno aggiunto. È legittimo quindi domandarsi quale sia il significato di un film che dichiara di essere un atto di accusa contro la criminalità organizzata e che invece se la prende con i tutori dell’ordine, gli unici che ogni giorno combattono veramente mafia, camorra e ndrangheta.  Il Ministero degli Interni in questi mesi sta collezionando una serie impressionante di arresti. I criminali organizzati del Sud non sono mai stati così perseguitati. Sono i poliziotti e i Carabinieri a rischiare la vita per queste operazioni. Come nella strage di Capaci. Come in mille altri agguati meno noti. Si tratta di un elenco lungo e doloroso. Ma per una certa cultura della sinistra, Saviano in testa, la Polizia è sempre da bastonare. Come ai tempi del ’68, nelle rivolte chic di Valle Giulia a Roma. “È triste. Siete in ritardo, figli. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1968. Uno scrittore vero. Diverso da Saviano.

martedì 3 maggio 2011

domenica 1 maggio 2011

Giornalisti a San Pietro il 1 maggio



La situazione sulla terrazza di Carlo Magno 30 minuti prima dell'inizio della cerimonia di Beatificazione di Giovanni Paolo II.

GIGANTE!


La fede. L’umiltà. La preghiera. La gioia. Ecco cosa è successo a Roma nel giorno della beatificazione di Giovanni Paolo II.

La fede. L’umiltà. Gli applausi e le mille bandiere sventolavate al sole. Il silenzio impressionante durante la preghiera. Alla fine, il sorriso stanco ma felice dei due milioni di fedeli accorsi a Roma il 1° maggio per festeggiare la beatificazione di Giovanni Paolo II. “Ma al di là della grandezza di un Papa — e dell’umiltà ancora più grande del suo successore, che con visibile commozione ha ricordato Giovanni Paolo II — a spiegare l’unicità della sua beatificazione è stata soprattutto la dimensione della fede”, ha scritto oggi Gian Maria Vian, il direttore dell’Osservatore Romano. Già, la fede. Lo ha ricordato Benedetto XVI durante l’Omelia della Santa Messa più seguita del decennio. “Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica”, ha detto con la voce rotta da una autentica emozione mentre la piazza esultava. “Un gigante della Fede”, ha aggiunto. Impressionante. Bisognava esserci per capire. Nonostante lo sforzo inedito che i media della Santa Sede hanno messo in campo insieme con la Rai per garantire a tutto il mondo la massima visibilità mediatica dell’evento, la testimonianza migliore dell’unicità del momento viene proprio da coloro che lo hanno vissuto in prima persona. Bisognava vedere, per esempio, le facce dei politici che uscivano dall’Arco della Campane, davanti alla Piazza del Sant’Uffizio, dopo aver reso omaggio alla salma di Giovanni Paolo II alla fine della celebrazione. Tutti sorridenti. Come illuminati da una luce che forse non pensavano neanche di avere. Lo testimonia Barbara Palombelli, fra i mille altri, che ha seguito l’intera celebrazione insieme con il marito Francesco Rutelli. “Mi sono riavvicinata alla fede grazie a questo Papa. Invito coloro che l’avessero persa, a cogliere la seconda opportunità che un Papa gigante come Giovanni Paolo II offre a tutti”, ha detto in una trasmissione televisiva della domenica pomeriggio. Le strade intorno a Piazza San Pietro avevano cominciato a riempirsi fin dalla sera prima. Al termine della veglia di preghiera presieduta dal Cardinale Vicario di Roma, Agostino Vallini, al Circo Massimo, la pressione sugli sbarramenti posti agli ingressi di Via della Conciliazione era diventata fortissima. Nessuno dormiva. Decine e decine di migliaia di persone, di tutte le età, dai più giovani ai più anziani, avevano preso possesso dei Lungotevere intorno al Vaticano, delle stradine di Borgo Pio, di ogni angolo. Cantavano, pregavano e si muovevano già in direzione del grande abbraccio del Colonnato della Piazza di San Pietro. Alla fine la vigilanza ha dovuto cedere e i primi varchi, quelli che permettevano alla folla di avvicinarsi alla Piazza, sono stati aperti con molto anticipo, nel bel mezzo della notte. I duemila giornalisti di tutto il mondo accreditati invece erano stati invitati ad arrivare entro le 5 del mattino. Sono entrati per un pelo negli  spazi di rispetto tenuti aperti a fatica dalle forze dell’ordine e dai mille volontari. Ogni volontario aveva un piccolo lumino azzurro appeso al collo, per essere più facilmente identificabile nell’oscurità della notte. Ma ecco un’immagine che un cronista non può fare a meno di registrare. A metà mattina, durante la celebrazione, una delle ragazze del servizio di volontariato, si piega sul cornicione del terrazzo del Braccio di Carlo Magno dove sono stati sistemati i giornalisti. Ha il volto nascosto fra le braccia. Il corpo è scosso dai singhiozzi. Forti, irrefrenabili. Piange per la commozione. L’evento a Roma è stato così. Un emozione forte, che ti prendeva alla gola. Lo capivi soprattutto dai mille sorrisi delle persone che si accalcavano per entrare in piazza. Non uno spintone, non una parola sbagliata. Solo una gioia incontenibile. Dal terrazzo del Braccio di Carlo Magno, nell’oscurità delle cinque del mattino, il panorama era ineguagliabile. Da una parte, fervevano i preparativi per sistemare l’altare, il trono del Papa, i fiori. Un enorme trattore si muoveva fra le siepi che ornano il sagrato di San Pietro con la delicatezza di una ricamatrice. Dall’altra parte, appena fuori dalla piazza, c'erano i più fortunati e tenaci. Migliaia di fedeli, vocianti ma sereni, che avevano rinunciato a dormire e che erano già pronti, all’apertura dei varchi, a riempire la piazza. I giornalisti, di ogni lingua e di ogni razza, affollavano le strutture attrezzate dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali sulla terrazza. Era  ancora buio e tutti avevano dormito poco o per niente. Ma c’era un’eccitazione palpabile e una adrenalina incontenibile. Il luogo era pieno di gente che si spostava in continuazione, che sistemava telecamere, giganteschi teleobiettivi e computer portatili. Un fermento vivo. Poi alla fine, è arrivata l’alba e, dopo un paio di ore che sono sembrati attimi, è iniziato il rito preparatorio. Alle dieci, puntualissimo, Benedetto XVI è entrato in Piazza sulla papamobile scoperta. Tutti hanno applaudito, anche molti giornalisti. “Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II – ha detto Ratzinger nella sua Omelia -. Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell’intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!”. Alla fine della celebrazione, religiosi e famiglie intere, sacerdoti e militari, politici e semplici fedeli, si sono ritrovati accalcati nel sole nella lunga fila durata ore, per entrare in Basilica a rendere omaggio alla Salma di Giovanni Paolo II. Un prete anziano, in fila, consigliava di non fermarsi al fascino mediatico e spettacolare dell’evento. “Si dovrà cercare di capire cosa significhi tutto questo per le anime dei fedeli”. Il Vangelo della Domenica della Beatificazione di Giovanni Paolo II parlava proprio di questo. In anticipo di duemila anni sulla storia dell’uomo contemporaneo, dell’uomo digitale delle mille forme di comunicazione, Gesù aveva detto: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). “Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede – ha spiegato Benedetto XVI -. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa “Pietro”, la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo”. Un gigante della Fede, così Benedetto XVI ha voluto ricordare Wojtyla. Nel silenzio della piazza assorta per la Liturgia Ecauristica, risuonava forte nelle menti l’invocazione dell’Omelia: “Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto in questa Piazza dal Palazzo! Oggi, ti preghiamo: Santo Padre ci benedica!”.

giovedì 28 aprile 2011

IL GRANDE EQUIVOCO


Comunicatore o testimone di Cristo? Di Giovanni Paolo II non si sono considerati che i “gesti”, obliterando le parole, la dottrina, e mettendo a riposo le generose speranze, dice il Cardinale Mauro Piacenza.


Grande comunicatore o testimone della speranza della Resurrezione? Vittima del sistema dei mass media o protagonista della comunicazione dei valori della vita? Nel fine settimana dedicato a Giovanni Paolo II, è bene tornare ad analizzare una delle caratteristiche del suo Pontificato che più hanno impressionato i media di tutto il mondo: la sua straordinaria capacità di comunicare. Nella vulgata giornalistica, questo carisma derivava direttamente dalle sue passate esperienze teatrali e dall’amore per ogni forma di spettacolo. Al momento della sua morte, quando il Collegio cardinalizio indicò il suo successore, non furono pochi coloro che espressero preoccupazioni per il gap comunicativo che si sarebbe potuto scavare fra un Pontificato e l’altro. A dispetto di questo futile pessimismo, invece la Chiesa continua ad essere vitale ed amata in tutto il mondo. Come e più di prima. Nonostante il diverso carisma comunicativo di Benedetto XVI. E allora? Come si concilia questa realtà con le analisi di coloro che preferirono raccontare l’avventura pastorale di Giovanni Paolo II come se il Papa fosse una rockstar alle prese con paparazzi e telecamere?
“Non c’era trucco nella sua comunicazione. C’era invece la forza dirompente della Buona Novella. Dio ci ha creato per essere felici e santi. Per essere santi e felici. È tutto qui. Ma non è poco. E, soprattutto, non c’è l’ombra di una contraddizione. Santi e felici. Felici e santi”, dice Wanda Poltawaska, una grande amica di Giovanni Paolo II. Per recuperare la giusta prospettiva, è opportuno rileggere anche la severa analisi del Cardinale Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero, pubblicata a suo tempo sull’agenzia Fides diretta da Luca De Mata.
“I grandi media, con gli anni, hanno rimproverato a Giovanni Paolo II, questo Pontefice così cordiale, umanamente simpatico, anticonformista nell’atteggiarsi pubblico, non l’innovatore ma il restauratore. Quasi esistesse, se non doppiezza, una contraddizione fra l’immagine  “moderna” e la dottrina non tanto antica quanto “risaputa”; fra il gesto sorprendente  e le parole, catechistiche. Tra i media è stato ripetuto il luogo comune di un Papa “mai tanto applaudito e così poco obbedito”; non si è persa occasione di far notare come ai “successi” degli eventi pubblici che Giovanni Paolo II ha provocato non sia seguita una risposta profonda nelle masse che attirava. Alla fin fine, nella vulgata corrente, di Giovanni Paolo II non si sono considerati che i “gesti”, obliterando le parole, la dottrina, e mettendo a riposo le generose speranze. Ma sarebbe un equivoco, e assai grave. Sarebbe una sorta di manipolazione. Certo, nel pontificato di Giovanni Paolo II v’è stata un’impressionante, e grandiosa, dimensione pubblica della fede; ma vorrei ricordare che essa nasce non da un senso spiccato per “l’evento mediatico”, ma dalla sofferta esperienza, direi dalle lotte di Karol Wojtyla sacerdote, vescovo, cardinale di Cracovia”. Un altro aspetto da riconsiderare è quello della novità che l’attività pastorale di Wojtyla avrebbe impresso alla macchina della comunicazione della Santa Sede. Secondo uno che di comunicazione se ne intende, il giornalista Bruno Vespa: “probabilmente, anche sotto l’aspetto comunicativo, non ci sarebbe stato Giovanni Paolo II se non ci fosse stato Giovanni Paolo I, il primo Papa ad usare la prima persona singolare, e Paolo VI, e Giovanni XXIII, che invitò i fedeli a portare la sua carezza ai figli, e Pio XII, uscito dal Vaticano per andare a consolare i romani martoriati dai bombardamenti”. Una dimensione storica tanto più attuale oggi, in una fase in cui si tende ad avere memoria breve e a farsi impressionare dall’evento dell’oggi, a scordare ciò che è successo appena ieri e a sottovalutare il domani. Ma quale lezione ha lasciato Giovanni Paolo II agli operatori della comunicazione sociale? “Il  Santo Padre teneva moltissimo alla famiglia come fonte della felicità e della santità dell’uomo – ricorda la Poltawaska -. La persona umana è stata creata per la salvezza e la pienezza del bene. È solo questo il segreto della forza travolgente della sua comunicazione. Lui ama veramente il prossimo. Ogni persona è trattata dal Santo Padre come una persona speciale. Questa sua attitudine verso il prossimo è quella che, alla fine, i mass media non hanno potuto fare a meno di registrare. Giovanni Paolo II non dava importanza ai mass media se non in quanto mezzi che gli permettevano di raggiungere le singole persone, il singolo figlio di Dio. Ma questo è anche ciò che il Santo Padre rimprovera ai giornalisti. Nell’ultima processione del Corpus Domini da lui presieduta a Cracovia prima di diventare Papa, all’ultima stazione accusò i giornalisti di non collaborare al processo di evangelizzazione. Lo scandalismo e il catastrofismo contribuiscono a creare nel pubblico un clima di sfiducia verso il proprio avvenire. Un sentimento negativo che è contrario allo spirito di speranza che invece è tipico della Buona Novella del Nuovo Testamento. “La verità è sempre umile”, diceva. Voleva ricordarci che si deve imparare a parlare con Dio. Fermiamoci, ci diceva, Dio parla in silenzio. Il Santo Padre era una persona di una fede così profonda che è difficile da immaginare. Se oggi viene ancora ricordato come  un grande comunicatore è perché aveva così tanto da comunicare. A tutti”.

mercoledì 27 aprile 2011

LA VERITA' E' SEMPRE UMILE

Wanda Poltawska, la grande amica di Giovanni Paolo II:
“La verità è sempre umile, diceva”
“Rimane la forza religiosa del suo sguardo”.
“Ha sempre avuto l’idea di avere tante persone da amare e così poco tempo per farlo”.



“Ho frequentato il Santo Padre per più di cinquant’anni”.
Wanda Poltawska, 90 anni, ha uno sguardo intenso. È stata una grande amica di Karol Wojtyla e ha lavorato a lungo con lui in Polonia, prima che diventasse Papa.
“Sono una psichiatra e, come medico, ho collaborato con convinzione ai tanti centri di ascolto per giovani coppie della diocesi di Cracovia che lui aveva allestito. L’ho ascoltato ogni giorno, da allora. Lui ha sempre voluto, prima di tutto, salvare la santità dell’amore umano. Ha sempre voluto mostrare il progetto d’amore di Dio per l’uomo. Il Santo Padre ne è sempre stato sicuro in tutti questi anni: Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la santità”.




Come nasce il carisma di Wojtyla?
“Il primo libro del giovane Karol Wojtyla era dedicato al tema dell’amore e della responsabilità”.
Si tratta di “Strade d’amore”, pubblicato in Italia, per la prima volta nel 2002.
“Descrisse in quelle pagine la grandiosità e l’infinita generosità del progetto di Dio. Nel suo secondo libro si occupò invece di chi deve avere e di chi deve dare quell’amore. Sono i figli di Dio. Noi siamo tutti figli di Dio.  È questo il motivo per il quale il Santo Padre era così interessato alla difesa della vita umana. Una volta mi disse che tutti i problemi si possono risolvere pensando alla genealogia divina. Siamo tutti figli di Dio. Il Santo Padre credeva veramente che ognuno di noi sia figlio di Dio. Non una creatura di Dio, come gli animali, ma un vero e proprio figlio di Dio che, quindi, è erede ed è amato come solo un figlio può essere amato. Il Santo Padre voleva che la gente capisse e credesse in questo perché un tale concetto della persona umana implica il dovere di vivere in un modo speciale. Si è figli di Dio e, come dicono i francesi, noblesse oblige”.



Perché tutti rimanevano colpiti dal suo sguardo?
“Quando si era insieme con il Santo Padre si provava una profonda commozione perché ci si sentiva guardati e capiti. Nell’intimo. Lo sguardo del Santo Padre era quello di una persona che era in grado di vedere le tracce genealogiche della nostra ascendenza divina. Era questo che guardava. Era questo che amava in noi. Il mio lavoro di psichiatra ebbe una svolta quando Mons. Wojtyla mi fece riflettere su questa verità. Questo infatti è ciò che veramente può aiutare la gente. Il Santo Padre era convinto che la persona umana sia sempre in fieri e che, quindi, possa svilupparsi per compiere quel progetto di felicità e di santità che Dio ha creato per tutti i suoi figli”.
Giovanni Paolo II si è sempre interessato alla famiglia. In un epoca di confusione sul tema, questa sua determinazione fa ancora più impressione.
Lo sviluppo di un individuo nasce nella propria famiglia. Se i genitori indirizzano male questo sviluppo, l’uomo passa poi il resto della vita nell’infelicità e nel tentativo di raddrizzare ciò che è stato fatto storto. Il  Santo Padre teneva moltissimo alla famiglia come fonte della felicità e della santità dell’uomo. La persona umana è stata creata per la salvezza e la pienezza del bene”.
Di lui hanno detto che è stato un grande comunicatore.
“Non c’era trucco nella sua comunicazione. C’era invece la forza dirompente della Buona Novella. Dio ci ha creato per essere felici e santi. Per essere santi e felici. È tutto qui. Ma non è poco. E, soprattutto, non c’è l’ombra di una contraddizione. Santi e felici. Felici e santi. Era solo questo il segreto della forza travolgente della sua comunicazione. Lui amava veramente il prossimo. Ogni persona è stata trattata dal Santo Padre come una persona speciale. Questa sua attitudine verso il prossimo era quella che, alla fine, i mass media non hanno potuto fare a meno di registrare. Il suo rispetto per il prossimo è sempre stata la molla di tutti gli incontri che ebbe da vescovo e, dopo, da Papa a Roma. Si parla tanto di mezzi di comunicazione di massa ma ci si sofferma poco sul fatto che l’arma di comunicazione più forte della Chiesa contemporanea sia ancora quella di duemila anni fa: l’omelia. Il contatto diretto con il prossimo e la forza della parola. Sono stati questi gli strumenti vincenti della comunicazione di Giovanni Paolo II. E lo saranno sempre di più per la Chiesa del Terzo Millennio”.
Il suo rapporto con i mass media?
“Il Papa non è stato ripreso dai mass media, non ha avuto un atteggiamento passivo nei confronti di telecamere e microfoni. Sapendo benissimo cosa dire, e perché, è stato lui ad usare i mezzi della comunicazione per raggiungere il prossimo in ogni angolo del mondo”.
Una comunicazione fortemente caratterizzata dal fatto religioso.
“La dimensione globale della comunicazione del suo pontificato ha avuto un significato teologico ed era riconducibile alla vocazione missionaria della Chiesa. Il Santo Padre ha sempre rivolto il suo messaggio a tutti, credenti e non, cattolici e non. Siamo tutti figli di Dio, ha sempre detto Giovanni Paolo II. Tutti, anche i non battezzati in Cristo”.
Come agiva Wojtyla in Polonia, sotto il comunismo?
“Era impossibile organizzare incontri di massa. Per questo motivo le occasioni di udienza con il Vescovo erano costruite in luoghi diversi dal vescovato ed erano dedicate di volta in volta a gruppi professionali diversi fra di loro: medici, architetti, giornalisti, ecc. Ognuno di questi incontri era preparato con cura per sfruttare nel migliore dei modi il poco tempo a disposizione. Una o due persone preparavano delle schede che il vescovo leggeva con scrupolo. Al momento dell’incontro quindi scattava sempre la molla della sorpresa: i professionisti erano sempre interpellati nello specifico della loro attività”.
Che tipo di Vescovo era Wojtyla?
“Il Santo Padre, anche quando era vescovo, ha sempre evitato l’errore di un insegnamento calato dall’alto. Al contrario, entrando in contatto con la realtà, ha sempre trovato il modo per una comunicazione diretta con i suoi interlocutori. È il metodo che poi ha usato anche a Roma e nei suoi viaggi. È sempre stato lui a scendere in mezzo alla gente e non ha mai aspettato che fossero gli altri a salire da lui. È il motivo per cui ha fatto tanti viaggi. Era lo stesso anche in Polonia. Ha sempre avuto l’idea di avere tante persone da amare e così poco tempo per farlo. Quando era vescovo, gli capitava spesso di presiedere la celebrazione eucaristica in tre città molto distanti fra di loro. Durante il viaggio, poi, ne approfittava per scrivere e per leggere”.
Come faceva a vedere tante persone? La sua agenda è sempre stata frenetica e convulsa.
“Le persone che vedeva erano sempre molto diverse fra di loro. Dalle suore di Madre Teresa ai diplomatici dei paesi arabi. Lui, prima di ogni incontro, pregava  per la persona che stava per incontrare. Lo faceva sempre. Ogni volta. Quando poi si aprivano le porte e i visitatori entravano al suo cospetto, scattava subito la molla del contatto. È questo uno dei motivi dello straordinario carisma che si respirava anche durante gli incontri di massa, soprattutto con i giovani. Il Santo Padre, anche nelle assolate pianure piene di centinaia di migliaia di persone, cercava sempre il contatto con la singola persona. Anche quando aveva di fronte un milione di persone, parlava sempre in modo che ogni singolo sentisse quelle parole come dirette a lui personalmente, a lui come persone umana e figlio di Dio. È un sentimento di amore verso il fratello che la gente riusciva a percepire e che provocava commozione. Stava in questo atteggiamento la genialità nell’uso dei mass media.  Giovanni Paolo II non dava importanza ai mass media se non in quanto mezzi che gli permettevano di raggiungere le singole persone, il singolo figlio di Dio”.
Nell’ultima processione del Corpus Domini da lui presieduta a Cracovia prima di diventare Papa, all’ultima stazione accusò i giornalisti di non collaborare al processo di evangelizzazione.
“Lo scandalismo e il catastrofismo contribuiscono a creare nel pubblico un clima di sfiducia verso il proprio avvenire. Un sentimento negativo che è contrario allo spirito di speranza che invece è tipico della Buona Novella del Nuovo Testamento”.
Ricorda la prima volta che lo incontrò dopo la sua elezione al Soglio Pontificio?
“Quando andai a Roma la prima volta ebbi una fortissima impressione. Dissi a mio marito che sembrava una farfalla che aveva finalmente compiuto il proprio processo di sviluppo e che poteva finalmente volare. Da allora non ha mai smesso di volare. Per annunciare la nostra felicità e per indicarci la strada per la santità. Ma nonostante la bellezza del suo volo, non abbiamo mai smesso di sentirlo vicino in tutti questi anni. “La verità è sempre umile”, diceva. Voleva ricordarci che si deve imparare a parlare con Dio. Fermiamoci, ci diceva, Dio parla in silenzio. Il Santo Padre era una persona di una fede così profonda che è difficile da immaginare. Se ancora oggi viene considerato un grande comunicatore è perché aveva così tanto da comunicare. A tutti”.

sabato 23 aprile 2011

Nanni Moretti? Un prete mancato.

Curiosa e affascinante è la sintonia che un ateo miscredente di sinistra come il regista Nanni Moretti ha nei confronti del mondo dei sacerdoti. Nel suo nuovo film, “Habemus Papam”, già in testa agli incassi del botteghino italiano e pronto per andare a fare una passerella d’onore al prossimo festival di Cannes di maggio (i francesi lo adorano), Moretti parla di un Pontefice schiacciato dal peso della responsabilità. Interpretato da uno splendido Michel Piccoli (recita in italiano con esitazioni e accenti da francese), il nuovo Papa succede a Giovanni Paolo II (il film si apre con il repertorio del funerale di Wojtyla montato come fosse materiale nuovo e mai visto, bellissimo) ma, al momento di affacciarsi per la prima volta al Balcone delle benedizioni, caccia un urlo disumano e corre a rifugiarsi nella Cappella Sistina.
“Come Pietro – diceva Giovanni Paolo II – il Papa è chiamato ad essere una pietra, a confermare i suoi fratelli nella fede”.  Non fa così invece il personaggio del film di Moretti. Più che una pietra, sembra fragile e ondivago come la società “liquida” di cui parla il sociologo Bauman, il teorico dell’età dell’incertezza. Per convincere il riluttante nuovo Papa ad accettare l’incarico, i Cardinali decidono di chiamare uno psicoanalista interpretato da Nanni Moretti. Rimarranno tutti chiusi in Vaticano in un prolungamento innaturale del Conclave. Il terapeuta, per ingannare il tempo, organizzerà anche un surreale torneo di volley fra i porporati. Non sanno però che il Papa intanto è scappato e, in incognito, gira per Roma. Si tratta di un curioso espediente narrativo. Il dottore ateo e miscredente entra in Vaticano con religiosi e cardinali e, nella sua stanza, c’è solo un libro, la Bibbia. Il Papa in abiti borghesi invece, come Zavattini, prende il tram alla ricerca dell’umanità perduta. Ciò che colpisce coloro che frequentano la Curia romana è la capacità tutta morettiana di penetrare nella psicologia di sacerdoti e vescovi, nelle loro incertezze e nella loro umanità spicciola. Moretti trascura però completamente la dimensione religiosa.
“Sono Papa da due anni – aveva detto Benedetto XVI nel 1980 durante un incontro con i giovani in Francia -. Da più di venti sono Vescovo, eppure la cosa più importante per me rimane il fatto di essere un sacerdote. Potere ogni giorno celebrare l’Eucarestia, poter rinnovare il proprio sacrificio in Cristo, riportando, attraverso Lui, ogni cosa al Padre, il mondo, l’umanità e me stesso”. Ben diverso è invece l’atteggiamento del Papa e dei Cardinali raccontati da Moretti. Mai, neanche una volta, si riferiscono a Dio. Solo verso la fine del film, un piccolo prete in una chiesa romana semideserta parla della Misericordia del Signore nei confronti dei tanti difetti dell’umanità bisognosa di perdono. Un po’ poco anche per un miscredente come Moretti. “Io penso – aveva detto Benedetto XVI la scorsa estate ad alcuni sacerdoti romani - che, soprattutto, sia importante che i fedeli possano vedere che questo sacerdote non fa solo un ‘job’, ore di lavoro, e poi è libero e vive solo per se stesso, ma che è un uomo appassionato di Cristo, che porta in sé il fuoco dell’amore di Cristo”. Ovviamente non c’è traccia di questo fuoco nel film di Moretti. Ma la sua insistita volontà di mettere in secondo piano il trascendente è in parte compensata dalla sua straordinaria capacità di guardare dentro il disagio dei preti dell’età moderna. Lo aveva fatto anche con “La messa è finita”, il suo film del 1985 dedicato al tormento del giovane sacerdote Guido, costretto a vivere il suo ministero fra i coetani confusi e sbandati, cresciuti sulle ceneri dei movimenti giovanili e degli anni di piombo. “La messa è finita” venne proiettato allora anche nel corso delle “Settimane sociali” organizzate dalla Cei. Gli oltre cinquecento sacerdoti, che in quei giorni videro il film di Moretti, reagirono con grande empatia. Risero, si commossero e, alla fine, applaudirono. Si tratta di una sintonia veramente stravagante tanto da far pensare che forse lo stesso Moretti sia una specie di prete mancato.
Dove nasce questa attrazione di Moretti verso il ministero sacerdotale? “Tutto questo accade perché il nostro celibato sfida il mondo, mettendo in profonda crisi il suo secolarismo ed il suo agnosticismo e gridando, nei secoli, che Dio c’è ed è presente!”, suggerisce uno scritto del cardinale Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero. È da credere comunque che stia in questa ambivalenza la ragione della mitezza del giudizio dei cattolici sul film. Mentre da una parte non si può non registrare l’assenza del Mistero, dall’altra in molti sono stati tratti in inganno dalla capacità di Moretti di farsi “prete” anche se ateo. Da Messori a Ravasi, dal neoconvertito Giuliano Ferrara (“Non l’ho ancora visto ma già mi piace”, ha scritto l’elefantino) agli esperti della Commissione Valutazione Film della Cei, nessuno ha sparato a palle incatenate sul film tranne che per una lettera pubblicata ieri su "Avvenire" e su “Piùvoce”. “Sulla crisi di identità che attanaglia il neo eletto pontefice, il regista getta uno sguardo di comprensione ampia e generosa – scrivono gli esperti della Cei nella scheda preparata per le sale parrocchiali - , la radiografia di una `repulsione` improvvisa, che non trova origine né lascia intravedere soluzioni. Una parabola sulla rinuncia che il mestiere furbo e esperto di Moretti lega anche e comunque alla cassa di risonanza massmediatica che la scelta del mondo vaticano comporta. Dal distacco tra lo scenario scelto e l`approccio un po` elementare nel descriverlo, deriva che il film, dal punto di vista pastorale, é da valutare come complesso e segnato da superficialità”. Invece il film meriterebbe forse una maggiore attenzione. Alla fine il Papa di Moretti dice: “Non sono la guida che state cercando”. A chi si riferisce? 

Pubblicato su Piuvoce.net

venerdì 22 aprile 2011

SISTEMA CINEMA PIEMONTE





Rubini, Soldini, Volo, Genovese, Vanzina, Ponti, Calopresti, Emmer, Manuli, Avati, Bruni Tedeschi, Martinelli, Ferrara, Lizzani, Gaglianone, Bonivento, Zaccaro,  Montaldo, Sorrentino, Base, Torrini, Infascelli, Patierno, Ferrario, Capotondi, Grimaldi, Capitani, Marino, Argento, Capuano, Molaioli, Faenza, Venier, Bonivento, Carpi, Lucini, De Seta, Archibugi, Giordana, Tognazzi, Amurri, Lucchetti, Segre, Martone, Chiambretti, Samperi, Chiesa, Pozzessere, Corsicato, Comencini, Haber, Chiambretti e ovviamente Mazzacurati (da cui il titolo di questa rubrica) sono solo alcuni dei tanti registi che hanno girato in Piemonte. Ci sarà pure un motivo per il quale il Piemonte è oggi la regione cinematografica più attiva d’Italia, dopo il Lazio. Insieme con teatri di posa da far invidia a Cinecittà, ad una film commission iperattiva e ad un centro di formazione d’eccellenza, quello del CSC di Alberoni, il Piemonte ha varato anche il primo fondo di investimento cinematografico nazionale dedicato in gran parte ad agevolare tutte le pratiche relative a tax credit e tax shelter (per l’incontro fra imprese e cinema). Il fondo è stato costituito proprio grazie al forte sostegno della finanziaria regionale, Finpiemonte, e su imput specifico della giunta di Roberto Cota. Si tratta del F.I.P. (Film Investimenti Piemonte) guidato da Paolo Tenna. A tenere a battesimo le prime coproduzioni del F.I.P. (come riferisce Stefano Radice su queste pagine) nel convegno su “New Business? Show Business!” tenutosi prima di Pasqua a Torino, c’era una parte non marginale del cinema italiano. Da Luciano Sovena, Amministratore Delegato di Cinecittà Luce, a Domenico Procacci con la sua Fandango. Da Mario Gianani, il rappresentante più brillante della nuova generazione di produttori cinematografici italiani, a Lionello Cerri. Da Nicola Borrelli, direttore generale del Cinema del Mibac, all’avvocato Bruno della Ragione. C’erano anche i produttori esecutivi più famosi di Roma e i direttori finanziari delle principali società di produzione cinematografica d’Italia. Se si sommano con i registi che hanno lavorato e lavoreranno a Torino, si può arrivare a dire che al momento c’è quasi più cinema italiano in Piemonte che in qualsiasi altra regione. Come si spiega? Per capire cosa sta succedendo nel Piemonte, si deve andare a leggere un altro elenco di persone, quello dei torinesi e dei piemontesi che in questi mesi si sono dati da fare al fianco di Tenna per la costituzione del Fondo di investimento cinematografico. Eccolo. Si comincia con Michele Coppola, assessore alla cultura della Regione guidata da Roberto Cota e candidato sindaco alle prossime amministrative torinesi. Grande amico di Tenna, politico giovane e brillante, non lesina gli sforzi per capire e sostenere il cinema piemontese. C’è Giuseppe Cortese, responsabile della segreteria di Cota e braccio destro operativo della Presidenza della Regione con deleghe mica da ridere come quella per la riforma della sanità piemontese. Cortese, nonostante un’agenda impossibile, ha però voluto trovare il tempo anche per sostenere la razionalizzazione del Sistema Cinema e non sono poche le ore che in questi mesi ha dedicato alle riunioni organizzative con Tenna. C’è poi Massimo Feira, presidente della Finpiemonte. Insieme con il suo direttore generale, l’architetto Maria Cristina Perlo, è fin dal primo istante al fianco di Tenna per elaborare prospettive strategiche e follow up operativi sul piano finanziario. Ci sono infine due cinematografari d.o.c. del Piemonte come Steve Della Casa (Film Commission) e Alberto Barbera (Museo del cinema) i quali, senza soluzione di continuità dalla giunta regionale della Bresso a quella di Cota, si sono allineati con buona volontà e per l’obiettivo comune di incrementare i buoni risultati raggiunti finora. Non è poco. Si tratta di un quadro ben diverso da quello di altre regioni. “Amo il Piemonte e sono impressionato per la profondità e per il carattere inedito del rapporto che lega questa regione al cinema”, disse Roberto Cota, il governatore del Piemonte subito dopo essere stato eletto. Appunto.

giovedì 7 aprile 2011

Laboratorio Roma

La prossima sfida per il sistema festivaliero romano è quella di tramutarsi nel primo laboratorio politico bipartisan del cinema italiano. Il vero problema a Roma, come altrove, è infatti la mancanza di dialogo. Alcuni esempi? Il centrosinistra, invece di cavalcare la candidatura avanzata da Alemanno di un tecnico più di sinistra che di destra come Marco Muller, ha sparato a palle incatenate bloccandone la discesa a Roma. Anche la nomina di Caterina D’Amico alla Casa del Cinema è stata salutata da futili contestazioni. E il centrodestra? La nomina di Aurelio Regina alla guida dell’Auditorium voluta da Gianni Alemanno, per esempio, non ha convinto né Renata Polverini né Fabiana Santini, assessore cultura del Lazio. La morte politica prematura di Umberto Croppi, ex assessore cultura di Roma, inoltre, ha fatto saltare il tavolo del dialogo sul futuro dei festival cinema e fiction che la Regione Lazio aveva aperto in tempi non sospetti con il Comune. Ora i pontieri sono al lavoro e Dino Gasperini (il successore di Croppi) sta cercando di risalire la china con determinazione e buona volontà. Si tratta di un’attività febbrile ma che apparentemente finora ha prodotto poco. I temi sul tappeto, infatti, sono numerosi e sono troppo grandi perché possano essere affrontati senza una reale condivisione politica strategica. Oltre alle difficoltà di dialogo interne ai due schieramenti, c’è da considerare infatti il ruolo che Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e terzo socio del sistema festivaliero romano, ha intenzione di giocare fino in fondo e senza sconti. Zingaretti è virtualmente già in campagna elettorale per il Comune di Roma, una corsa che è accompagnata dal sorriso di Goffredo Bettini, braccio destro di Veltroni e vero inventore e fondatore del Festival del Cinema di Roma. È difficile che voglia subire passivamente le decisioni altrui sul futuro della manifestazione culturale più importante della capitale. C’è poi il tema dei finanziamenti. La Regione Lazio è in ritardo tecnico sul saldo del finanziamento per l’esercizio 2010 del festival e, prima di impegnare nuove risorse per il futuro, vuole capire le regole del gioco e il peso che potrà far valere nelle decisioni strategiche di fondo. Nel frattempo, come segnale di buona volontà, ha messo sul tavolo della trattativa la fine dell’inutile competizione fra festival della fiction e quello del cinema. Faremo un passo indietro sulla fiction, hanno detto la Polverini e la Santini, a fronte dello sviluppo del mercato, di una maggiore razionalizzazione del sistema e, ovviamente, di una maggiore visibilità politica della Regione sul red carpet del cinema. Un invito rimasto senza risposte. Sullo sfondo incombono i due macrotemi. La riduzione della volontà di intervento della Direzione Generale Cinema del Mibac (il neo Ministro Giancarlo Galan, appena nominato, ha detto che in Italia c’è solo la Mostra del cinema di Venezia, una posizione che rischia di produrre effetti negativi proprio sul fiore all’occhiello del festival, il mercato, l’unica iniziativa romana sostenuta dal Ministero) e la crisi strutturale e d’identità del polo cinematografico pubblico della Capitale, Cinecittà Luce. Alcuni segnali positivi vengono però dal Ministro della Gioventù, Giorgia Meloni che, senza esitazioni, è diventato ormai il quarto socio del manifestazione romana. Si tratta di una situazione molto complessa. È difficile immaginare come ne potrà venire a capo una politica che è distratta da divisioni e da incomprensioni. La soluzione però è a portata di mano e, con un salto di qualità, potrebbe far diventare la città di Roma il primo laboratorio politico d’eccellenza per il rilancio del sistema cinematografico. Un tavolo di lavoro congiunto e alla luce del sole dove far sedere, insieme con Galan, Alemanno e Polverini, anche Zingaretti, la Meloni e strateghi di sistema come Bettini. Sarebbe un bel gesto di coraggio. Un gesto responsabile. Che potrebbe essere esportato in altre regioni. Abbiamo parlato di Roma, infatti. Ma cosa succederà nei prossimi mesi a Venezia quando Galan dovrà discutere con il governatore del Veneto Zaia del futuro della Biennale? E a Torino quando la Lega di Cota e il Pd di Fassino, dopo le elezioni comunali, dovranno mettersi al lavoro sui destini della più potente film commission d’Italia e del terzo festival nazionale?


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sabato 26 marzo 2011

DOTTOR MORTE




“Ma lei crede in Dio?”, urla una manifestante per strada. Lui, Jack Kevorkian, più famoso con il soprannome di “Dottor Morte”, fa fermare la macchina, apre lo sportello e, alla ragazza, risponde: “Credo in Dio? Certo. Si chiama Johann Sebastian Bach”. Scambio di sguardi e poi, prima di ripartire, aggiunge: “Almeno il mio non è un dio inventato”. Il film “You don’t know Jack” di Barry Levinson, proposto in questi giorni agli abbonati di Sky e presentato in Italia al Roma Fiction Fest della scorsa estate, è un film che avrebbe dovuto attirare una maggiore attenzione critica da parte dei cattolici impegnati nella difesa del valore fondamentale della vita umana. La storia è quella vera del medico del Michigan che negli anni Novanta procurò “morte assistita” a 130 pazienti. Una vera e propria strage per il tribunale che alla fine lo condannò a venticinque anni di reclusione, una pena scontata solo in parte per motivi di salute. Interpretato da un cast stellare formato, fra gli altri, da Al Pacino, Susan Sarandon e John Goodman, e diretto magistralmente dallo stesso regista che nel 1988 vinse un Oscar con il film “Rain man – L’uomo della pioggia” con Dustin Hoffman, il film, in Italia, non ha suscitato dibattiti. Sono stati in pochi ad occuparsene sulle pagine dei giornali. Mirella Poggialini, su “Avvenire”, ha detto che si tratta di: “Un bel film tv fondato sulla cronaca, che fa raggricciare di orrore, con l'assenza lacerante della parola «pietà», sostituita da un acre concetto di contesa e ambizione. Un film-lezione, quindi, sorretto dalla verità dei fatti”. Aldo Grasso, su “Il corriere della sera”, se possibile è stato ancora più esplicito. “Il tema è difficile, spinoso, ma il prodotto è di ottima fattura e questa è la garanzia principale che si richiede in casi come questo”, ha scritto in un pezzo intitolato “Quando la fiction supera i talk show”. La tesi del film è che il dottor Kevorkian sia stato spinto dall’ambizione personale, dalla frustrazione professionale (inizia la praticare l'eutanasia dopo essere stato messo in pensione dal sistema sanitario americano) e, soprattutto, da traumi infantili (la prematura morte della madre). “Non il medico buono, colui che del malato si fa carico per curarlo e lenire la sua pena – ha scritto la Poggialini - ma il medico-giudice, che stabilisce con freddezza l'ora della morte e la procura con feroce determinazione, del tutto indifferente all'angoscia della vittima”. Il critico cinematografico di MyMovies, Giancarlo Zappoli, ha detto che il film “finisce così con il lasciarci con una domanda diversa rispetto a quella che ci potremmo attendere. Non ci viene chiesto di formulare una sentenza sul dottor Jack Kevorkian (lo hanno già fatto i tribunali). Ci viene invece chiesto di provare a pensare di vivere in una situazione di malattia terminale in cui il dolore domina irreversibilmente e di porci una domanda che non riguardi ciò che vorremmo imporre agli altri (sarebbe estremamente facile) ma cosa vorremmo per noi stessi”. Si tratta dell’ambiguità più evidente del film. Nella contrapposizione fra i due fronti, pro o contro l’eutanasia, il primo infatti alla fine risulta più credibile. I personaggi che affiancano il Dottor Morte sono meglio delineati e sono interpretati da attori molto amati dal grande pubblico. I loro oppositori invece sono raccontati in modo piatto e sono descritti come un’accozaglia di integralisti bigotti e senza cuore. Il “Dottor Morte”, viene raccontato nel film, non è una brava persona ma quello che fa è giusto. Un trucco drammaturgico che lascia lo spettatore con il vuoto di una domanda senza risposta. Manca insomma la dimensione etica e un giudizio morale esplicito. “Attraverso ricerche, interviste, filmati d'epoca conosciamo più a fondo un uomo, la sua vita privata, i suoi rapporti personali, la sua scelta professionale. Su cui, ovviamente, ognuno è libero di opporre le proprie convinzioni – spiega Aldo Grasso -. Ma rispetto ai dibattiti che nascono nei talk show, quando la cronaca preme, come nel caso Englaro, la fiction depura la vicenda dai suoi risvolti più ideologici e permette una riflessione serena, lontano dal dolorismo, dalla lagnanza, dall'implorazione. Del resto, il compito dell'arte è anche questo: cercare una mediazione estetica con cui affrontare le tragedie della vita”. Difficile essere d’accordo con questa interpretazione. La visione del film, infatti, diventa urticante proprio per la partigianeria “pro eutanasia” del racconto, una presa di posizione mascherata con l’ipocrisia e con la finta obiettività di una cronaca che però è appannata dal pregiudizio.

mercoledì 23 marzo 2011

Caos Cinema Italia

Virzì e Guadagnino litigano mentre sono in Usa per Oscar e Golden Globe. La D’Amico incassa con fair play, ma con faccia scura, l’epiteto di “collaborazionista” che il suo predecessore alla direzione della Casa del Cinema di Roma, Felice Laudadio, le lancia da un’affollata conferenza stampa. Nel frattempo gli autori cinematografici mandano a dire ai trionfatori della stagione, Zalone, Brizzi, Genovese e Albanese, che il loro non è vero cinema ma solo una specie di sottoprodotto della tv. Le altre associazioni di categoria (ma quante ce ne sono in Italia?) se la prendono con gli Enti Locali di Roma e del Lazio perché vogliono razionalizzare gli investimenti cinematografici nella Capitale dopo gli anni chiassosi ma un po’ confusi di Veltroni, Bettini e Marrazzo. Produttori, distributori e esercenti intanto si insultano a vicenda per la tassa di scopo sul biglietto cinematografico, prima richiesta al Governo e poi subito contestata. Per non farsi mancare nulla, c’è anche una contrapposizione tutta interna al cinema pubblico, con il presidente e l’amministratore delegato di Cinecittà Luce schierati pubblicamente contro il proprio azionista, il ministro Sandro Bondi. Tutto questo mentre Nanni Moretti minaccia sfracelli per un’anticipazione giornalistica non concordata sul suo nuovo film. E così via, all’infinito (non abbiamo citato, infatti, i guai della Fondazione Fellini, le frizioni a Venezia, i problemi che gravitano su Taormina, gli scontri fra intellettuali a Torino, le competizioni fra i grandi premi cinematografici italiani, gli strilli dei documentaristi, eccetera, e ancora bla bla bla). È un elenco da capogiro, con proteste, litigi e polemiche in un momento che tutto sommato è quello meno indicato per il malumore. Le cose infatti, dopo anni di incertezza, hanno preso la giusta direzione. Addirittura in controtendenza con ciò che accade nel resto del mondo, si registra una presenza in crescita del pubblico nelle sale, un maggiore interesse per i film italiani e un’inedita e commovente vampata di moderna professionalità nella nuova generazione di imprenditori del cinema. Ma invece di fare festa è scoppiato il caos. Un vero e proprio “caos cinema Italia”. Una sorta di guerra fratricida di tutti contro tutti. Con battaglie sibilate a labbra strette, cose dette a tizio perché vengano riferite a caio e con scaramucce strillate vacuamente sulle agenzie di stampa. Maria Rosa Mancuso, sul Foglio, li ha chiamati i “cinepiagnoni”. Una definizione brillante e tristemente azzeccata. Rimane quindi una sola domanda: perché? Perché il cinema italiano si caratterizza per questa sua paradossale e parossistica capacità di litigare (manco fosse il villaggio gallico di Asterix e Obelix)? La risposta potrebbe essere complessa ma, nello stesso tempo (ed è questo il timore più grande) anche fin troppo semplice. Diceva Pio XII, che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato». Alcuni protagonisti del cinema italiano, quelli più litigiosi, sembrano animati da un anacronistico spirito conservativo. Sono conservativi e suscettibili. Temono di perdere i privilegi acquisiti e così si arrabbiano per un nonnulla. Sono sempre in guerra. Contro il ministro, contro il comico fortunato, contro il collega più giovane, contro i giornalisti. Con la giusta distanza e con più serenità si potrebbero fare analisi più simili a quelle del bambino della favola di Andersen che all’improvviso grida “il re è nudo”. Non da noi. Il problema vero infatti è che la giusta distanza è stata annullata. Troppi conflitti di interesse, troppe poltrone da difendere digrignando i denti, troppe inadeguatezze personali da nascondere con la demagogia. Un mio caro amico, un anziano sacerdote che ne ha viste tante, una volta che mi trovò parecchio agitato (inveivo contro il mondo), mi chiese: di cosa hai paura? Già, di cosa abbiamo paura? 
P.S.: nel suo piccolo anche questa rubrichetta (“temini” li chiamava il critico cinematografico del Corriere della sera, Giovanni Grazzini) ha suscitato il suo vespaio. Qualcuno si è lamentato. Alcuni con affetto, con garbo e con qualche ragione. Altri invece... Ma di cosa hanno paura?


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sabato 5 marzo 2011

Francesco Bolzoni, il sorriso del critico

Francesco Bolzoni, critico cinematografico del quotidiano “Avvenire” è stato per molti anni anche la firma di punta della “Rivista del cinematografo”. L’ho conosciuto quando io ero ancora un ragazzo con molti capelli e molte e confuse idee e lui, invece, era già un critico affermato ed esperto. Eravamo a Venezia, a una delle prime Mostre del Cinema che ero stato chiamato a seguire per conto dell’Ente dello Spettacolo. Gli chiesi la cortesia di dedicarmi qualche minuto. Rinunciò alla proiezione mattutina di un film per parlarmi. Con un sorriso che gli saliva spontaneamente negli occhi, ti guardava dritto in faccia, si accendeva una sigaretta e iniziava a parlare.
Ricordo bene i miei sentimenti di allora: fin da subito provai il desiderio ingordo di non interromperlo e di stare ad ascoltarlo per ore. Rimanemmo a lungo sotto il sole e la sua agenda delle proiezioni quotidiane ne fu stravolta. Ascoltarlo era un piacere, una soddisfazione per l’animo assetato di un ragazzo che si stava avvicinando con qualche perplessità al complesso mondo del cinema. Pranzammo insieme e alla fine mi salutò con la promessa di darmi una mano. La sua amicizia, da quel momento, non venne mai meno. Il suo approccio critico al fenomeno cinematografico nazionale e internazionale è stato sempre caratterizzato da un’assoluta libertà di giudizio. Iscritto di diritto nel ristretto club dei critici cattolici, è stato un maestro di originalità di pensiero e un nemico naturale della omologazione delle idee.
Dopo alcuni anni passati insieme, gomito a gomito, all’Ente dello Spettacolo, ebbi un’idea che fu proprio la sua autorevole libertà ad ispirarmi. Decisi di convocare un inedito comitato scientifico per individuare la linea editoriale della nuova “Rivista del Cinematografo”. Ne fecero parte persone che erano molto diverse fra di loro, per estrazione e cultura, ma che erano in sintonia proprio per la loro spiccata autonomia intellettuale e critica. Erano Lietta Tornabuoni, la leggendaria giornalista de “La Stampa” di Torino, Fernaldo Di Giammatteo, direttore e animatore della collana di biografie “Castoro cinema”, laico e curioso (ricordo ancora le infinite discussioni su alcuni aspetti della cultura cattolica che lo avevano affascinato), Claudio Siniscalchi, docente di cinema della Lumsa, autore di saggi brillanti (fra gli altri “Cristo al cinema”, “La new age cinematografica”, ecc.) e inventore del concept del primo festival cinematografico del mondo organizzato insieme con il Vaticano, il “Tertio Millennio”. In questo gruppo ovviamente spiccava per la sua partecipazione mai banale alle discussioni proprio Francesco Bolzoni. I suoi interventi, nelle molte discussioni fatte insieme, non erano mai prolissi. Piuttosto preferiva l’affondo pungente, l’annotazione veloce, il sorriso sornione di una cosa non detta.
Con la sua morte sono stato costretto a ripensare a quel periodo e rimpiango di non aver mai pensato di registrare quelle stranissime riunioni di redazioni. Erano un fuoco di artificio di idee e di stimoli. Per molti anni Bolzoni è stato anche il vero animatore della Giuria del Premio “La Navicella – Sergio Trasatti” alla Mostra del Cinema di Venezia. Ci rivolgevamo quasi naturalmente a lui, alla fine, per la sintesi e la chiosa sulla decisione finale del regista da premiare per un film “attento ai valori umani e spirituali e corretto nel linguaggio”. Sono state proprie le sue battaglie a costringerci ad assegnare, a volte, alcuni premi inaspettati e poco prevedibili. Bolzoni mi è stato sempre a fianco, mentre crescevo professionalmente, con una lealtà rocciosa e con una generosità intellettuale rara da trovare nel mondo della critica cinematografica. Il luogo comune infatti è che la maggior parte dei critici non abbiano molte idee e che preferiscano conservare e proteggere per i propri articoli le poche illuminazioni sulle quali riescono a mettere le mani. Francesco, invece, non era così. Aveva tante idee da riempire gli scaffali e amava condividerle spontaneamente con le persone che gli stavano intorno. Ricordo ancora molto bene quella mattina a Venezia, la mia prima riunione con Bolzoni. Ci sedemmo nel giardino di uno dei tanti albergucci del Lido, mentre intorno a noi si agitavano troupe televisive giapponesi, neanche fossimo in un film di Fellini. Gli chiesi aiuto e qualche consiglio. E lui cominciò a parlare. E a parlare. Con quel sorriso che gli brillava negli occhi e che, per fortuna, ora è difficilissimo da scordare. Mi rimane il desiderio intimo di ascoltarlo ancora. E Il rimpianto, tutto sommato, di non averlo poi ascoltato quanto avrei dovuto. Adesso che, inaspettatamente, vengo colto impreparato dalla notizia della sua morte (come se stessi ancora aspettando il momento giusto per elaborare un nuovo progetto da fare insieme con lui) con un nodo in gola vorrei dirgli almeno grazie.

domenica 27 febbraio 2011

"Black Swan", ecco cosa abbiamo capito

True Grit

E il celibato sfida il mondo




















Il celibato dei sacerdoti è il tema di uno scontro culturale epocale molto acceso che sta animando le riflessioni più profonde e strategiche della Chiesa Mondiale. I giornali, in Italia e nel mondo, nella maggior parte dei casi, però non hanno capito la portata storica della partita in corso e preferiscono speculare sulle posizioni politiche pro o contro Berlusconi dei vescovi italiani o su quelle che vengono millantate come debolezze o contraddizioni dell’attuale pontificato. Pedofilia, scandali sessuali, intemperanze private sono sempre sullo sfondo di queste interpretazioni giornalistiche. “Tutto questo accade perché il nostro celibato sfida il mondo, mettendo in profonda crisi il suo secolarismo ed il suo agnosticismo e gridando, nei secoli, che Dio c’è ed è presente!”, sospira il Cardinale Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero. Proprio in questi giorni, mentre in Francia, ad Ars, si svolgeva un convegno su «Il celibato sacerdotale, fondamenti, gioie, sfide» (24 - 26 gennaio), è partita dalla Germania la notizia che Benedetto XVI, nel 1970, fece parte di un comitato di nove teologi incaricati dalla Conferenza Episcopale tedesca di esaminare il tema della crisi delle vocazioni. Il documento redatto 41 anni fa e firmato, fra gli altri, anche dal giovane Ratzinger, suggeriva ai Vescovi tedeschi di chiedere a Paolo VI di rivedere il tema del celibato dei sacerdoti. “Solitudine” e “mancanza di identità del proprio ruolo nella società moderna” sono, secondo quel documento, i rischi che corre il sacerdote costretto al celibato. La notizia è stata molto strillata in Germania, da sempre in fibrillazione “antiromana” sul tema del celibato, nell’ennesimo tentativo di delegittimare il Papa. “In un mondo gravemente secolarizzato, è sempre più difficile comprendere le ragioni del celibato”, spiega il Cardinale Piacenza, incaricato proprio da Benedetto XVI di presiedere la Congregazione del Clero in un momento di grave tensione internazionale sul ruolo e l’immagine del sacerdote. “Dobbiamo avere il coraggio, come Chiesa, di domandarci se intendiamo rassegnarci ad una tale situazione, accettando come fatto ineluttabile la progressiva secolarizzazione delle società e delle culture, o se siamo pronti ad un’opera di profonda e reale nuova evangelizzazione, al servizio del Vangelo e, perciò, della verità dell’uomo – ha detto ai preti riuniti la scorsa settimana ad Ars -. Ritengo, in tal senso, che il motivato sostegno al celibato e la sua adeguata valorizzazione nella vita della Chiesa e del mondo, possano rappresentare alcune tra le vie più efficaci per superare la secolarizzazione”. Benedetto XVI, all’inizio del Suo Pontificato, nel 2006, nel Discorso in occasione dell’Udienza alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, disse ai sacerdoti di tutto il mondo: “Il celibato deve essere una testimonianza di Fede: la Fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita, che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio e alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarLo agli uomini”. Benedetto XVI, il prossimo 29 giugno, celebrerà il sessantesimo anniversario della sua ordinazione a sacerdote. Un ruolo che ha sempre vissuto con convinta partecipazione, come testimoniano le persone che gli sono state vicine in questi anni. Nel 2005, in occasione dell’ultima Via Crucis presieduta, seppure a distanza, da Giovanni Paolo II, fu proprio l’allora Cardinale Ratzinger a scrivere le meditazioni. Per la nona stazione, la terza caduta di Gesù, Ratzinger, facendo fare un salto sulla sedia a molte delle persone, laici o sacerdoti, che in quel momento seguivano la diretta tv, scrisse con sofferta ma lucida consapevolezza: “Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del Santo Sacramento della Sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso Egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!”. Quando, pochi mesi più tardi, venne eletto al Soglio di Pietro, Benedetto XVI si dedicò subito al tema che gli era più caro, il ruolo dei sacerdoti nella società moderna. Lo fece con notevole anticipo sui tempi giornalistici degli scandali sulla pedofilia. “Il celibato è questione di radicalismo evangelico! – spiega con forza il Cardinale Piacenza -. Povertà, castità ed obbedienza non sono consigli riservati in modo esclusivo ai religiosi, sono virtù da vivere con intensa passione missionaria. Non possiamo tradire i nostri giovani! Non possiamo abbassare il livello della formazione e, di fatto, della proposta di fede! Non possiamo tradire il popolo santo di Dio, che attende pastori santi, come il Curato d’Ars! Dobbiamo essere radicali nella sequela Christi! E non temiamo il calo del numero dei chierici. Il numero decresce quando si abbassa la temperatura della fede, perché le vocazioni sono “affare” divino e non umano, e seguono la logica divina che è stoltezza umana! Ci vuole fede!”.

Boris? Il Film.

mercoledì 2 febbraio 2011

La vera grinta


Film molto bello, di destra, intimamente e sfacciatamente repubblicano, “Il grinta” dei fratelli Coen ha già conquistato il pubblico Usa: 140 milioni di dollari di incasso ad oggi e dieci nomination agli Oscar, comprese quelle più importanti: miglior film, miglior regia, migliore attore, migliore sceneggiatura, e migliore attrice non protagonista per la splendida interpretazione della quattordicenne Hailee Steinfeld. “Il Grinta”, tratto dal romanzo “True Grit” di Charles Portis (pubblicato in Italia col titolo “Un uomo vero per Mattie Ross”), non ha molto in comune con l’omonimo film interpretato da John Wayne nel 1969. Jeff Bridges, al quale è stato affidato il ruolo del duro Rooster Cogburn che fu di John Wayne (Oscar nel 1970), ha raccontato che “quando i Coen mi dissero che volevano girare Il Grinta, gli ho detto ‘Gee, ma quel film non l’hanno già fatto, perché volete rifarlo?’ e loro mi hanno risposto ‘Non vogliamo fare un remake del film, faremo una nuova versione del romanzo di Charles Portis’. Allora ho letto il libro ed ho capito subito quello che intendevano, perché si trattava proprio di una storia perfetta per un film dei Coen. E visto che non avevano mai fatto un vero western prima, il film sarebbe stato una sorpresa”. “Il grinta” è molto più che una sorpresa: avvincente e avvolgente come un racconto intorno al fuoco, è forse una delle più convincenti e “most broadly entertaining” opere della filmografia dei Coen, come ha scritto anche il “Los Angeles Times”. “Il film non ha i toni dark di “Non è un paese per vecchi” – hanno spiegato i fratelli Coen – e non ci interessava il western con cowboy, cavalli e indiani. Quello che volevamo veramente affrontare è stato il libro di Charles Portis, che ci ha folgorato durante la lettura, dato che è la più completa storia di frontiera. Una sorta di ballata americana dal poetico e talvolta malinconico realismo”. È la storia di una ragazza, Mattie Ross, decisa a vendicare il padre assassinato con l’aiuto di un malandato tutore della legge di frontiera e di un onesto Texas Ranger. “La gente non riesce a credere che una ragazza possa avventurarsi nel bel mezzo del gelido inverno per vendicare la morte del padre, ma è veramente andata così”, si legge nel fulminante incipit del libro. Tutto è narrato in prima persona dalla stessa Mattie e il punto di vista della giovanissima adolescente in un mondo di uomini duri e pronti a tutto è la nota più accattivante del racconto. Un noto autore, George Pelecanos, in un intervista rilasciata nel 1996, spiegò che: “La voce di Mattie, ironica e sicura, è una delle grandi invenzioni della letteratura contemporanea. Io la colloco proprio accanto a quella di Huck Finn e la mia non è un’esagerazione”. Le parole “true grit” sono ormai sinonimo di quell’ostinazione e del coraggio che sorreggono una persona in circostanze complicate, due dei valori più tipici della tradizione americana. Il film si gioca intorno al contrasto fra la incrollabile determinazione di Mattie (“L’assassino di mio padre deve pagare per quello che ha fatto, niente è gratis a questo mondo, tranne la grazia di Dio”) e il supporto che dovrebbe fornirle il cinico e improbabile Rooster, “senza pietà, duro e la paura non entra nei suoi pensieri”, anche se ogni tanto “alza il gomito”, un personaggio che il Los Angeles Time ha definito “primitivo, paleolitico”. Accompagnati dal Texas Ranger LaBoeuf, interpretato da un Matt Damon molto bravo (dice di essersi ispirato a Tom Lee Jones), si imbarcano in un viaggio alla scoperta dell’etica dello spirito della frontiera. L’amicizia e il rispetto che alla fine i due uomini dimostreranno nei confronti della ragazza, dicono molte cose sul desiderio di purificazione della cultura americana. Rimane da chiedersi cosa muove gli Usa di Barack Obama e due autori come i Coen a spingersi oggi, dopo solo due anni di potere gestito dai democratici, verso il territorio mai completamente esplorato dei sentimenti intimi della pancia più schiettamente repubblicana dell’elettorato americano. E sarà divertente leggere le recensioni dei nostri critici più progressisti quando, il prossimo 18 febbraio, il film uscirà anche da noi, in Italia.

venerdì 7 gennaio 2011

Clint Eastwood e lo gnosticismo cinematografico


Una cattiva risposta ad una buona domanda. Il nuovo film diretto da Clint Eastwood, “Hereafter” (“L’aldilà”), uscito nelle sale italiane il 5 gennaio, esplora il mistero della morte con un approccio che suscita più di un motivo di perplessità. Eastwood infatti sembra voler programmaticamente ignorare la dimensione religiosa del più grande interrogativo della nostra vita. La sua chiave di interpretazione è lo gnosticismo. La salvezza raggiunta attraverso un orgoglioso e discutibile percorso di conoscenza è la filosofia che caratterizza ogni azione dei personaggi di questo film. Come la gnosi stessa, si tratta appunto di una cattiva risposta per una buona domanda. Ma non tutti sono d’accordo e il film ha già suscitato più di un entusiasmo nella cultura cosiddetta laica. Paolo Mereghetti del Corriere della Sera si domanda: “Come si può non farsi catturare da un film così diretto ed emozionante, così bello e classico?”. Curzio Maltese de La Repubblica parla addirittura di “capolavoro”. "Il più felice racconto sulla morte mai concepito sullo schermo", scrive. Secondo Mereghetti il film di Eastwood “ha l’ambizione filosofica di sottolineare un’idea della vita che vede nel Caso (con la maiuscola, nel suo articolo) un elemento centrale per orientare o disorientare le fragili azioni umane”. È un’interpretazione generosa che non ci sentiamo di condividere. Il film corale narra le vicende di tre personaggi: una donna che ha avuto un’esperienza di “premorte”, un bambino che non trova consolazione per la scomparsa prematura e tragica del proprio fratello gemello, un adulto (interpretato da Matt Damon) che ha facoltà di medium. Il film eccede in furbizia e cerca la complicità del cuore del pubblico strumentalizzando il dolore della vita: il bambino ha una madre tossicodipendente, la ragazza è stata violentata dal padre e non riesce a legarsi ad un uomo, e così via. Eastwood arriva anche, ed è la parte più scivolosa del film, a suscitare simpatia per l’ambigua attività dei presunti medium che in tutto il mondo speculano sul dolore per la scomparsa di una persona cara. “Ci sono le prove scientifiche”, grida la dottoressa di una clinica svizzera dove si studiano le esperienze di premorte, in un momento non secondario del film. Prodotto da Steven Spielberg, costato più di 50 milioni di dollari, “Hereafter” è stato accolto con freddezza in Usa e l’incasso americano (lì è uscito prima di Natale) ha superato a stento i 30 milioni di dollari. Praticamente un flop. Vedremo cosa accadrà da noi nel primo finesettimana di programmazione. Il film si apre con la compiaciuta ricostruzione dello tsunami che nel 2004 devastò il Sud Est asiatico provocando la morte di 230mila persone. Ci sono molti effetti speciali anche per l’altra scena spettacolare del film con la quale Eastwood ripropone alcuni momenti dell’attentato terroristico nella metropolitana di Londra del luglio del 2005. Sono i due passaggi cinematografici ad alta adrenalina che potranno consentire a Eastwood di correre per l’Oscar. Il film rappresenta il debutto come sceneggiatore di Peter Morgan, già noto ad Hollywood per essere l’autore delle storie sulle quali sono stati realizzati due “fact-based movies” come “Frost/Nixon” e “The Queen”. Morgan è arrivato alla sceneggiatura di “Hereafter”, dicono a Hollywood, dopo la morte di un caro amico e grazie all’incontro con Clint Eastwood. “Ad Hollywood una volta si facevano film su questi temi – ha scritto Kenneth Turan su The Los Angeles Times – ma nella Hollywood di oggi solo un regista come Eastwood, determinato a non fare mai due volte la stessa cosa, poteva avere il coraggio di realizzarlo. Sebbene il soggetto sia inusuale, la cosa convincente di “Hereafter” è proprio il modo di collocare i temi spirituali esattamente nel contesto di Hollywood”. Per voler troppo lodare il film, il critico di The Los Angeles Times, individua involontariamente proprio il punto debole della pellicola: aver raccontato un aldilà a misura delle major materialiste e laiche di Hollywood. A chi ha già visto “Hereafter” rimane invece da gestire un sentimento di spaseamento. L’unico funerale religioso, in un film dove si parla di morte, viene sbrigativamente risolto da un officiante (un prete?) che poi, in tutta fretta, sgombera il luogo di culto per far posto ad una cerimonia indù. Ma l’interrogativo più grande riguarda proprio il regista. Eastwood, nel 1992, diresse un western molto poco convenzionale, “Unforgiven” (“Gli spietati”, in italiano), un insuperato e potente apologo sul mistero della morte e sul dramma della violenza. “È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha... e tutto quello che sperava di avere”, diceva il protagonista di “Unforgiven”. Si tratta di una corda che a diciotto anni di distanza Eastwood con “Hereafter”, pregiudizialmente ateo e inutilmente spettacolare, non riesce più a far vibrare.