martedì 28 giugno 2005

L’affanno dei media e la politica italiana

Cadono le certezze e si sente l’affanno dei media. Le televisioni di tutto il mondo si confrontano con l’avvento delle nuove tecnologie del digitale e della moltiplicazione dei canali, quindi con la fine annunciata del modello tradizionalmente generalista di broadcasting. Le compagnie telefoniche invece provano a distribuire (e addirittura a produrre) contenuti, confrontandosi con il mercato nuovissimo della banda larga di cui però non è ancora stato definito il modello di business. Anche l’anziano re di tutti i media, il boxoffice cinematografico Usa, è in calo per la prima volta da anni e si deve confrontare con la necessità di rivedere il complesso sistema delle finestre di sfruttamento dei film, dalle sale all’homevideo. In questo scenario, le discussioni italiane intorno ai destini della Rai assomigliano molto al suono dell’orchestra sulla tolda del Titanic. Si capisce che sta per nascere un modo diverso di intendere la comunicazione di massa (dai blog su Internet ai nuovi modelli di tv interattiva per la videofonia mobile) ma il nostro dibattito politico sul servizio pubblico e sulla televisione è testardamente rivolto al passato. Si ha la sensazione che ci sia una diffusa incapacità di intercettare il cambiamento, di capirne la portata. Insieme con l’affanno crescente dei media, si intuisce insomma un’ennesima prova dell’ottusità di molti politici italiani.

Si tratta di una miopia che ha origine remote. Nel nostro paese c’è sempre stata una distanza quasi schizoide fra la comunicazione (e l’intrattenimento) di massa e l’elaborazione colta del pensiero politico. A cominciare dagli anni Venti. In quel periodo la Chiesa cattolica, guidata da Pio XI, non solo aprì la Radio Vaticana (1931) ma fondò anche il Centro Cattolico Cinematografico (1928), una struttura che era destinata a diventare centrale nella vita culturale italiana promuovendo registi come Vittorio De Sica e lo stesso fenomeno del neorealismo. Questa importante intuizione delle potenzialità dei mezzi di comunicazione venne però accolta con diffidenza da intellettuali e politici: per anni il Vaticano infatti è stato accusato di perseguire atteggiamenti censori e ancora oggi sono pochissimi coloro che sono in grado di analizzare, al contrario, il ruolo propulsivo della cultura cattolica del Novecento. Fu uno dei primi grandi abbagli del pensiero moderno italiano, talmente paradossale da impedire a molti, in tempi più recenti, di capire fino in fondo la vera e propria rivoluzione mediatica di Giovanni Paolo II. È con il suo pontificato che il sistema della comunicazione contemporanea si scontra per la prima volta con la domanda globale di valori e di contenuti forti da parte del pubblico di tutto il mondo. “Difficilmente Roma potrà dimenticare tutto questo chiasso”, disse Giovanni Paolo II ridendo al milione e più di giovani riunitisi, in mondovisione, a Tor Vergata nell’agosto del 2000.

Negli anni venti, su un fronte laico e molto distante dal Vaticano, nasce anche un’altra grande rimozione collettiva della cultura e della politica italiana. Nel 1924, infatti, Mussolini getta le basi dell’industria dell’intrattenimento del nostro paese. Fonda prima l’Istituto Luce e, poi, Cinecittà. Il primo con intenti propagandistici ed pedagogici (Luce stava per L’Unione Cinematografica Educativa), il secondo per creare presupposti industriali adeguati allo sviluppo del cinema (in quel periodo vengono realizzati a Cinecittà i primi grandi kolossal della storia del cinema mondiale). Queste iniziative di Mussolini diedero un contributo troppo spesso ignorato allo sviluppo della modernità del nostro paese. “Noi registi dovremmo ringraziare Mussolini e Andreotti (contribuì nel dopoguerra all’erogazione dei finanziamenti pubblici al cinema italiano)”, ripete spesso in modo sornione il bertinottiano Citto Maselli. Fu proprio grazie alle strutture di Cinecittà che poterono crescere e poi svilupparsi i germi del neorealismo e del grande cinema italiano del dopoguerra. Ma ancora adesso questa semplice analisi è vittima di una vasta e articolata rimozione censoria da parte dei salotti buoni della cultura italiana. I recenti studi della storica americana Ruth Ben-Ghiat su Fascist Modernities: Italy, 1922-45, pubblicati nel 2001 dalla “Berkeley: University of California Press” e tradotti in Italia da “Il mulino” (La cultura fascista), sono stati ferocemente e brutalmente stroncati dai giornali italiani.

D’altra parte viviamo nel paese dove la più grande rivoluzione televisiva del dopoguerra, la nascita della Fininvest di Berlusconi, che ha contribuito nel bene o nel male a modificare integralmente le abitudini degli italiani, ancora oggi non viene quasi mai analizzata in chiave sociologica ma esclusivamente in chiave politica e strumentale.

Non stupisce, quindi, la nuova ottusità della politica italiana nei confronti dei cambiamenti ampiamente annunciati del sistema dei media. È il risultato di un percorso culturale antico che impedisce ancora oggi di comprendere fino in fondo il paese che si intenderebbe governare. Come a dire che, forse, c’è un nesso più stretto di quanto si sia disposti ad ammettere fra l’autogol sul referendum  e la confusione sulla nomina del presidente della Rai. Capire l’aria che tira a Via Mazzini aiuta a capire il paese, si ripete spesso. Riuscire a sentire l’affanno dei media, aiuterebbe ad  intercettare i nuovi bisogni degli italiani e ad elaborare strategie politiche meno miopi.

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