sabato 26 marzo 2011

DOTTOR MORTE




“Ma lei crede in Dio?”, urla una manifestante per strada. Lui, Jack Kevorkian, più famoso con il soprannome di “Dottor Morte”, fa fermare la macchina, apre lo sportello e, alla ragazza, risponde: “Credo in Dio? Certo. Si chiama Johann Sebastian Bach”. Scambio di sguardi e poi, prima di ripartire, aggiunge: “Almeno il mio non è un dio inventato”. Il film “You don’t know Jack” di Barry Levinson, proposto in questi giorni agli abbonati di Sky e presentato in Italia al Roma Fiction Fest della scorsa estate, è un film che avrebbe dovuto attirare una maggiore attenzione critica da parte dei cattolici impegnati nella difesa del valore fondamentale della vita umana. La storia è quella vera del medico del Michigan che negli anni Novanta procurò “morte assistita” a 130 pazienti. Una vera e propria strage per il tribunale che alla fine lo condannò a venticinque anni di reclusione, una pena scontata solo in parte per motivi di salute. Interpretato da un cast stellare formato, fra gli altri, da Al Pacino, Susan Sarandon e John Goodman, e diretto magistralmente dallo stesso regista che nel 1988 vinse un Oscar con il film “Rain man – L’uomo della pioggia” con Dustin Hoffman, il film, in Italia, non ha suscitato dibattiti. Sono stati in pochi ad occuparsene sulle pagine dei giornali. Mirella Poggialini, su “Avvenire”, ha detto che si tratta di: “Un bel film tv fondato sulla cronaca, che fa raggricciare di orrore, con l'assenza lacerante della parola «pietà», sostituita da un acre concetto di contesa e ambizione. Un film-lezione, quindi, sorretto dalla verità dei fatti”. Aldo Grasso, su “Il corriere della sera”, se possibile è stato ancora più esplicito. “Il tema è difficile, spinoso, ma il prodotto è di ottima fattura e questa è la garanzia principale che si richiede in casi come questo”, ha scritto in un pezzo intitolato “Quando la fiction supera i talk show”. La tesi del film è che il dottor Kevorkian sia stato spinto dall’ambizione personale, dalla frustrazione professionale (inizia la praticare l'eutanasia dopo essere stato messo in pensione dal sistema sanitario americano) e, soprattutto, da traumi infantili (la prematura morte della madre). “Non il medico buono, colui che del malato si fa carico per curarlo e lenire la sua pena – ha scritto la Poggialini - ma il medico-giudice, che stabilisce con freddezza l'ora della morte e la procura con feroce determinazione, del tutto indifferente all'angoscia della vittima”. Il critico cinematografico di MyMovies, Giancarlo Zappoli, ha detto che il film “finisce così con il lasciarci con una domanda diversa rispetto a quella che ci potremmo attendere. Non ci viene chiesto di formulare una sentenza sul dottor Jack Kevorkian (lo hanno già fatto i tribunali). Ci viene invece chiesto di provare a pensare di vivere in una situazione di malattia terminale in cui il dolore domina irreversibilmente e di porci una domanda che non riguardi ciò che vorremmo imporre agli altri (sarebbe estremamente facile) ma cosa vorremmo per noi stessi”. Si tratta dell’ambiguità più evidente del film. Nella contrapposizione fra i due fronti, pro o contro l’eutanasia, il primo infatti alla fine risulta più credibile. I personaggi che affiancano il Dottor Morte sono meglio delineati e sono interpretati da attori molto amati dal grande pubblico. I loro oppositori invece sono raccontati in modo piatto e sono descritti come un’accozaglia di integralisti bigotti e senza cuore. Il “Dottor Morte”, viene raccontato nel film, non è una brava persona ma quello che fa è giusto. Un trucco drammaturgico che lascia lo spettatore con il vuoto di una domanda senza risposta. Manca insomma la dimensione etica e un giudizio morale esplicito. “Attraverso ricerche, interviste, filmati d'epoca conosciamo più a fondo un uomo, la sua vita privata, i suoi rapporti personali, la sua scelta professionale. Su cui, ovviamente, ognuno è libero di opporre le proprie convinzioni – spiega Aldo Grasso -. Ma rispetto ai dibattiti che nascono nei talk show, quando la cronaca preme, come nel caso Englaro, la fiction depura la vicenda dai suoi risvolti più ideologici e permette una riflessione serena, lontano dal dolorismo, dalla lagnanza, dall'implorazione. Del resto, il compito dell'arte è anche questo: cercare una mediazione estetica con cui affrontare le tragedie della vita”. Difficile essere d’accordo con questa interpretazione. La visione del film, infatti, diventa urticante proprio per la partigianeria “pro eutanasia” del racconto, una presa di posizione mascherata con l’ipocrisia e con la finta obiettività di una cronaca che però è appannata dal pregiudizio.

mercoledì 23 marzo 2011

Caos Cinema Italia

Virzì e Guadagnino litigano mentre sono in Usa per Oscar e Golden Globe. La D’Amico incassa con fair play, ma con faccia scura, l’epiteto di “collaborazionista” che il suo predecessore alla direzione della Casa del Cinema di Roma, Felice Laudadio, le lancia da un’affollata conferenza stampa. Nel frattempo gli autori cinematografici mandano a dire ai trionfatori della stagione, Zalone, Brizzi, Genovese e Albanese, che il loro non è vero cinema ma solo una specie di sottoprodotto della tv. Le altre associazioni di categoria (ma quante ce ne sono in Italia?) se la prendono con gli Enti Locali di Roma e del Lazio perché vogliono razionalizzare gli investimenti cinematografici nella Capitale dopo gli anni chiassosi ma un po’ confusi di Veltroni, Bettini e Marrazzo. Produttori, distributori e esercenti intanto si insultano a vicenda per la tassa di scopo sul biglietto cinematografico, prima richiesta al Governo e poi subito contestata. Per non farsi mancare nulla, c’è anche una contrapposizione tutta interna al cinema pubblico, con il presidente e l’amministratore delegato di Cinecittà Luce schierati pubblicamente contro il proprio azionista, il ministro Sandro Bondi. Tutto questo mentre Nanni Moretti minaccia sfracelli per un’anticipazione giornalistica non concordata sul suo nuovo film. E così via, all’infinito (non abbiamo citato, infatti, i guai della Fondazione Fellini, le frizioni a Venezia, i problemi che gravitano su Taormina, gli scontri fra intellettuali a Torino, le competizioni fra i grandi premi cinematografici italiani, gli strilli dei documentaristi, eccetera, e ancora bla bla bla). È un elenco da capogiro, con proteste, litigi e polemiche in un momento che tutto sommato è quello meno indicato per il malumore. Le cose infatti, dopo anni di incertezza, hanno preso la giusta direzione. Addirittura in controtendenza con ciò che accade nel resto del mondo, si registra una presenza in crescita del pubblico nelle sale, un maggiore interesse per i film italiani e un’inedita e commovente vampata di moderna professionalità nella nuova generazione di imprenditori del cinema. Ma invece di fare festa è scoppiato il caos. Un vero e proprio “caos cinema Italia”. Una sorta di guerra fratricida di tutti contro tutti. Con battaglie sibilate a labbra strette, cose dette a tizio perché vengano riferite a caio e con scaramucce strillate vacuamente sulle agenzie di stampa. Maria Rosa Mancuso, sul Foglio, li ha chiamati i “cinepiagnoni”. Una definizione brillante e tristemente azzeccata. Rimane quindi una sola domanda: perché? Perché il cinema italiano si caratterizza per questa sua paradossale e parossistica capacità di litigare (manco fosse il villaggio gallico di Asterix e Obelix)? La risposta potrebbe essere complessa ma, nello stesso tempo (ed è questo il timore più grande) anche fin troppo semplice. Diceva Pio XII, che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato». Alcuni protagonisti del cinema italiano, quelli più litigiosi, sembrano animati da un anacronistico spirito conservativo. Sono conservativi e suscettibili. Temono di perdere i privilegi acquisiti e così si arrabbiano per un nonnulla. Sono sempre in guerra. Contro il ministro, contro il comico fortunato, contro il collega più giovane, contro i giornalisti. Con la giusta distanza e con più serenità si potrebbero fare analisi più simili a quelle del bambino della favola di Andersen che all’improvviso grida “il re è nudo”. Non da noi. Il problema vero infatti è che la giusta distanza è stata annullata. Troppi conflitti di interesse, troppe poltrone da difendere digrignando i denti, troppe inadeguatezze personali da nascondere con la demagogia. Un mio caro amico, un anziano sacerdote che ne ha viste tante, una volta che mi trovò parecchio agitato (inveivo contro il mondo), mi chiese: di cosa hai paura? Già, di cosa abbiamo paura? 
P.S.: nel suo piccolo anche questa rubrichetta (“temini” li chiamava il critico cinematografico del Corriere della sera, Giovanni Grazzini) ha suscitato il suo vespaio. Qualcuno si è lamentato. Alcuni con affetto, con garbo e con qualche ragione. Altri invece... Ma di cosa hanno paura?


Pubblicato su Boxoffice

sabato 5 marzo 2011

Francesco Bolzoni, il sorriso del critico

Francesco Bolzoni, critico cinematografico del quotidiano “Avvenire” è stato per molti anni anche la firma di punta della “Rivista del cinematografo”. L’ho conosciuto quando io ero ancora un ragazzo con molti capelli e molte e confuse idee e lui, invece, era già un critico affermato ed esperto. Eravamo a Venezia, a una delle prime Mostre del Cinema che ero stato chiamato a seguire per conto dell’Ente dello Spettacolo. Gli chiesi la cortesia di dedicarmi qualche minuto. Rinunciò alla proiezione mattutina di un film per parlarmi. Con un sorriso che gli saliva spontaneamente negli occhi, ti guardava dritto in faccia, si accendeva una sigaretta e iniziava a parlare.
Ricordo bene i miei sentimenti di allora: fin da subito provai il desiderio ingordo di non interromperlo e di stare ad ascoltarlo per ore. Rimanemmo a lungo sotto il sole e la sua agenda delle proiezioni quotidiane ne fu stravolta. Ascoltarlo era un piacere, una soddisfazione per l’animo assetato di un ragazzo che si stava avvicinando con qualche perplessità al complesso mondo del cinema. Pranzammo insieme e alla fine mi salutò con la promessa di darmi una mano. La sua amicizia, da quel momento, non venne mai meno. Il suo approccio critico al fenomeno cinematografico nazionale e internazionale è stato sempre caratterizzato da un’assoluta libertà di giudizio. Iscritto di diritto nel ristretto club dei critici cattolici, è stato un maestro di originalità di pensiero e un nemico naturale della omologazione delle idee.
Dopo alcuni anni passati insieme, gomito a gomito, all’Ente dello Spettacolo, ebbi un’idea che fu proprio la sua autorevole libertà ad ispirarmi. Decisi di convocare un inedito comitato scientifico per individuare la linea editoriale della nuova “Rivista del Cinematografo”. Ne fecero parte persone che erano molto diverse fra di loro, per estrazione e cultura, ma che erano in sintonia proprio per la loro spiccata autonomia intellettuale e critica. Erano Lietta Tornabuoni, la leggendaria giornalista de “La Stampa” di Torino, Fernaldo Di Giammatteo, direttore e animatore della collana di biografie “Castoro cinema”, laico e curioso (ricordo ancora le infinite discussioni su alcuni aspetti della cultura cattolica che lo avevano affascinato), Claudio Siniscalchi, docente di cinema della Lumsa, autore di saggi brillanti (fra gli altri “Cristo al cinema”, “La new age cinematografica”, ecc.) e inventore del concept del primo festival cinematografico del mondo organizzato insieme con il Vaticano, il “Tertio Millennio”. In questo gruppo ovviamente spiccava per la sua partecipazione mai banale alle discussioni proprio Francesco Bolzoni. I suoi interventi, nelle molte discussioni fatte insieme, non erano mai prolissi. Piuttosto preferiva l’affondo pungente, l’annotazione veloce, il sorriso sornione di una cosa non detta.
Con la sua morte sono stato costretto a ripensare a quel periodo e rimpiango di non aver mai pensato di registrare quelle stranissime riunioni di redazioni. Erano un fuoco di artificio di idee e di stimoli. Per molti anni Bolzoni è stato anche il vero animatore della Giuria del Premio “La Navicella – Sergio Trasatti” alla Mostra del Cinema di Venezia. Ci rivolgevamo quasi naturalmente a lui, alla fine, per la sintesi e la chiosa sulla decisione finale del regista da premiare per un film “attento ai valori umani e spirituali e corretto nel linguaggio”. Sono state proprie le sue battaglie a costringerci ad assegnare, a volte, alcuni premi inaspettati e poco prevedibili. Bolzoni mi è stato sempre a fianco, mentre crescevo professionalmente, con una lealtà rocciosa e con una generosità intellettuale rara da trovare nel mondo della critica cinematografica. Il luogo comune infatti è che la maggior parte dei critici non abbiano molte idee e che preferiscano conservare e proteggere per i propri articoli le poche illuminazioni sulle quali riescono a mettere le mani. Francesco, invece, non era così. Aveva tante idee da riempire gli scaffali e amava condividerle spontaneamente con le persone che gli stavano intorno. Ricordo ancora molto bene quella mattina a Venezia, la mia prima riunione con Bolzoni. Ci sedemmo nel giardino di uno dei tanti albergucci del Lido, mentre intorno a noi si agitavano troupe televisive giapponesi, neanche fossimo in un film di Fellini. Gli chiesi aiuto e qualche consiglio. E lui cominciò a parlare. E a parlare. Con quel sorriso che gli brillava negli occhi e che, per fortuna, ora è difficilissimo da scordare. Mi rimane il desiderio intimo di ascoltarlo ancora. E Il rimpianto, tutto sommato, di non averlo poi ascoltato quanto avrei dovuto. Adesso che, inaspettatamente, vengo colto impreparato dalla notizia della sua morte (come se stessi ancora aspettando il momento giusto per elaborare un nuovo progetto da fare insieme con lui) con un nodo in gola vorrei dirgli almeno grazie.