“Ma lei crede in Dio?”, urla una manifestante per strada. Lui, Jack Kevorkian, più famoso con il soprannome di “Dottor Morte”, fa fermare la macchina, apre lo sportello e, alla ragazza, risponde: “Credo in Dio? Certo. Si chiama Johann Sebastian Bach”. Scambio di sguardi e poi, prima di ripartire, aggiunge: “Almeno il mio non è un dio inventato”. Il film “You don’t know Jack” di Barry Levinson, proposto in questi giorni agli abbonati di Sky e presentato in Italia al Roma Fiction Fest della scorsa estate, è un film che avrebbe dovuto attirare una maggiore attenzione critica da parte dei cattolici impegnati nella difesa del valore fondamentale della vita umana. La storia è quella vera del medico del Michigan che negli anni Novanta procurò “morte assistita” a 130 pazienti. Una vera e propria strage per il tribunale che alla fine lo condannò a venticinque anni di reclusione, una pena scontata solo in parte per motivi di salute. Interpretato da un cast stellare formato, fra gli altri, da Al Pacino, Susan Sarandon e John Goodman, e diretto magistralmente dallo stesso regista che nel 1988 vinse un Oscar con il film “Rain man – L’uomo della pioggia” con Dustin Hoffman, il film, in Italia, non ha suscitato dibattiti. Sono stati in pochi ad occuparsene sulle pagine dei giornali. Mirella Poggialini, su “Avvenire”, ha detto che si tratta di: “Un bel film tv fondato sulla cronaca, che fa raggricciare di orrore, con l'assenza lacerante della parola «pietà», sostituita da un acre concetto di contesa e ambizione. Un film-lezione, quindi, sorretto dalla verità dei fatti”. Aldo Grasso, su “Il corriere della sera”, se possibile è stato ancora più esplicito. “Il tema è difficile, spinoso, ma il prodotto è di ottima fattura e questa è la garanzia principale che si richiede in casi come questo”, ha scritto in un pezzo intitolato “Quando la fiction supera i talk show”. La tesi del film è che il dottor Kevorkian sia stato spinto dall’ambizione personale, dalla frustrazione professionale (inizia la praticare l'eutanasia dopo essere stato messo in pensione dal sistema sanitario americano) e, soprattutto, da traumi infantili (la prematura morte della madre). “Non il medico buono, colui che del malato si fa carico per curarlo e lenire la sua pena – ha scritto la Poggialini - ma il medico-giudice, che stabilisce con freddezza l'ora della morte e la procura con feroce determinazione, del tutto indifferente all'angoscia della vittima”. Il critico cinematografico di MyMovies, Giancarlo Zappoli, ha detto che il film “finisce così con il lasciarci con una domanda diversa rispetto a quella che ci potremmo attendere. Non ci viene chiesto di formulare una sentenza sul dottor Jack Kevorkian (lo hanno già fatto i tribunali). Ci viene invece chiesto di provare a pensare di vivere in una situazione di malattia terminale in cui il dolore domina irreversibilmente e di porci una domanda che non riguardi ciò che vorremmo imporre agli altri (sarebbe estremamente facile) ma cosa vorremmo per noi stessi”. Si tratta dell’ambiguità più evidente del film. Nella contrapposizione fra i due fronti, pro o contro l’eutanasia, il primo infatti alla fine risulta più credibile. I personaggi che affiancano il Dottor Morte sono meglio delineati e sono interpretati da attori molto amati dal grande pubblico. I loro oppositori invece sono raccontati in modo piatto e sono descritti come un’accozaglia di integralisti bigotti e senza cuore. Il “Dottor Morte”, viene raccontato nel film, non è una brava persona ma quello che fa è giusto. Un trucco drammaturgico che lascia lo spettatore con il vuoto di una domanda senza risposta. Manca insomma la dimensione etica e un giudizio morale esplicito. “Attraverso ricerche, interviste, filmati d'epoca conosciamo più a fondo un uomo, la sua vita privata, i suoi rapporti personali, la sua scelta professionale. Su cui, ovviamente, ognuno è libero di opporre le proprie convinzioni – spiega Aldo Grasso -. Ma rispetto ai dibattiti che nascono nei talk show, quando la cronaca preme, come nel caso Englaro, la fiction depura la vicenda dai suoi risvolti più ideologici e permette una riflessione serena, lontano dal dolorismo, dalla lagnanza, dall'implorazione. Del resto, il compito dell'arte è anche questo: cercare una mediazione estetica con cui affrontare le tragedie della vita”. Difficile essere d’accordo con questa interpretazione. La visione del film, infatti, diventa urticante proprio per la partigianeria “pro eutanasia” del racconto, una presa di posizione mascherata con l’ipocrisia e con la finta obiettività di una cronaca che però è appannata dal pregiudizio.
sabato 26 marzo 2011
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