domenica 7 settembre 2008
Solzenicyn, vivere senza menzogna
di Adriano dell'Asta
«Il disturbatore di Zurigo», così qualcuno aveva definito Solženicyn nel 1974, subito dopo la sua espulsione dall’Unione Sovietica, quando il grande scrittore si era momentaneamente stabilito in Svizzera, ed era ormai evidente che non sarebbe stato possibile farne un semplice strumento di lotta politica o, come si diceva allora, della guerra fredda. Solženicyn restava un critico inesorabile del comunismo, ma non era meno critico di un Occidente sempre più pago del proprio benessere e sempre più disperato: in una sorta di paradossale par condicio, che però non era affatto una banale equidistanza, denunciava le parentele inaspettate tra il «bazar del partito» e la «fiera del commercio»; e quindi disturbava. «Il disturbatore di Zurigo»; quella definizione aveva una sua logica inoppugnabile: Solženicyn disturbava i piani di una politica che per spartirsi il dominio del mondo era disposta a transigere su questioni come quella dei diritti umani o della libertà. Ma soprattutto disturbava e sconcertava in un periodo in cui si diceva che «tutto è politica», in un periodo in cui non si riusciva a concepire un’affermazione dell’uomo che non passasse attraverso una sanzione ideologica: si pensava (allora, ma qualcuno continua a pensarlo anche oggi) che, se l’ideologia comunista aveva distrutto il vecchio uomo, l’unica possibilità di ricostruirne il volto fosse quella di trovare un’ideologia più ricca, che magari aggiungesse alle giuste rivendicazioni sociali del marxismo un altrettanto giusto spazio per la dimensione spirituale dell’uomo. Si pensava, in fondo, che l’ideologia era buona e che era stata soltanto applicata male o che, al massimo, fosse degna soltanto di qualche correzione più o meno radicale; e si pensava che questo fosse il massimo della genialità dell’Occidente, capace persino di correggere e di portare finalmente a compimento l’ideale e il sogno più bello che l’uomo avesse saputo concepire, quello di una società perfetta. L’unico problema era che Solženicyn usciva da questo sogno e ne mostrava i tratti da incubo. L’incubo col quale disturbava la quieta coscienza occidentale era quello del principio ideologico in quanto tale; la sua non era un’equidistanza perché il suo non era un discorso politico con la rivelazione di una nuova ideologia: «Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta di trovarvi una rivelazione politica. Se fosse così semplice! se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno», dice Solženicyn nell’Arcipalgo Gulag,la sua opera apparentemente più politica. Ma il punto è che il male non era in questa o in quella ideologia, nell’ideologia dei neri o dei rossi contrapposta a quella dei bianchi, nell’ideologia del diavolo contrapposta a quella del santo; il male era nell’ideologia in quanto tale, era che si potesse pensare che c’era un’idea in nome della quale si era autorizzati a eliminare qualche uomo. Il male era che ci fosse una teoria, sociale, razziale, religiosa (ciascuno può aggiungere l’aggettivo che crede) che pretende di giustificare il male che si compie in nome della futura società perfetta e in questo modo dà «la duratura fermezza occorrente al malvagio». Il male era ed è che ci sia un’ideologia che, mentre facciamo il male, permette di «giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi». Quella di Solženicyn non era un’equidistanza, perché il grande scrittore sapeva ovviamente distinguere tra le responsabilità di chi aveva ucciso milioni di uomini e quelle di un Occidente che aveva chiuso gli occhi di fronte a queste tragedie, sperando di poter emendare i malvagi; ma proprio perché sapeva questo (e, sapendolo, si rivolgeva all’Occidente per invitarlo a destarsi dal suo torpore e a combattere l’ideologia) Solženicyn disturbava ancora di più, perché usciva da questa dialettica da padroni del mondo e denunciava, per usare l’espressione di un altro grande russo, che «l’ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo»: magari, come per l’Occidente, un nichilismo delicato e ancora sensibile alle complessità della vita, ma non per questo meno condannato a soccombere di fronte al nichilismo scatenato delle ideologie totalitarie. Per far fronte al totalitarismo occorreva uscire da questa dialettica del primato dell’idea e ritrovare il principio di realtà, ritrovare la verità del reale e nel reale, non come qualcosa che l’uomo deve immettervi a forza, facendo violenza a ciò che esiste, ma come qualcosa che è dentro il reale: non fatto da mano d’uomo. E Solženicyn è uscito da questa dialettica non attraverso un nuovo discorso, ma proprio riscoprendo la realtà non fatta da mano d’uomo: tali sono i suoi personaggi artistici. La sua è stata un’uscita ancora più decisa e netta dalla dialettica delle ideologie proprio perché realizzata attraverso la forma artistica, le immagini, le figure, le forme architettoniche date ai suoi romanzi, dove quello che cattura sono questi esseri che si trovano vincitori esattamente nel momento della sconfitta o della fine di tutte le loro forze umane; valga per tutti l’esempio di Matriona, la stupida vecchia che dopo la morte viene scoperta essere in realtà «il Giusto, senza il quale non vive il villaggio, né la città, né tutta la terra nostra». È questa sfida, di un uomo che vince ogni potere perché non fatto da mano d’uomo, che Solženicyn ci ha lasciato attraverso le sue opere letterarie, cioè, non attraverso un discorso teorico, ma attraverso la bellezza, che è la verità del reale, lo splendore del vero.
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