venerdì 8 agosto 2008

Castelli di sabbia


“Brutto bastardo!”. Era veramente furibonda. “È che hai dimenticato come si costruiscono i castelli di sabbia”, mi urlò dentro le orecchie.
“Ma, senti, ma che c’entra?”, provai a replicare a bassa voce, per non svegliare le bambine che dormivano nella stanza accanto. Non era stato facile farle addormentare.
Lei scoppiò a piangere. Si accasciò sul divano, nascondendosi il viso fra le mani.
“Che palle”, pensai fra di me. Senza volere diedi un’occhiata all’orologio. Lei alzò il viso verso di me. “Come che c’entra?”, mi sibilò in faccia. Sembrava che mi odiasse veramente.
Era ancora bellissima. Una dea. Elegante, alta, magra ma non troppo. Anche se adesso urlava e della sua bellezza non c’era traccia.
Il salotto era un disastro. Lampade rovesciate, divani strappati. Il contenuto dei cassetti era rovesciato in terra. Si vedeva il segno sul muro dove erano stati appesi i quadri. Si distingueva chiaramente, come una sagoma disegnata con il gesso sull’asfalto, il vuoto lasciato dal televisore nella polvere sul mobile.
Camminai verso la finestra, facendo attenzione ai vetri in terra. “Quanto ci vuole alla polizia per arrivare?”, mi chiesi con fastidio.
“I castelli di sabbia. Cazzo. I castelli di sabbia!”, urlò alzando le braccia al cielo. “Un po’ teatrale”, pensai.
Eravamo sposati da dodici anni.

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